«Pochi sono, nella storia, i protagonisti renitenti ad essere tali», era l’esordio memorabile del profilo di Martin Lutero scritto da Delio Cantimori nel 1966. Si sta parlando di eresia, e forse, [/ACM_2]si parva licet, non è del tutto fuori luogo accostare Pietro Ingrao alla figura di un protagonista riluttante sul terreno dell’eresia. Con la differenza, però, che nel caso di Ingrao la renitenza non venne abbandonata, se non troppo tardi, a giochi ormai fatti, e in chiave retrospettiva. In qualche misura si potrebbe addirittura riesumare l’«actus, non agens» per un protagonista che affermò sempre la sua volontà di venir preso nel «gorgo» della storia, ma sarebbe forzare troppo l’analogia.

Ingrao fu «capo-corrente» riluttante ad esserlo, più percepito e identificato come tale che esercitante una effettiva volontà di agire in quel senso. Attorno a Ingrao si era costituita nei primi anni Sessanta qualcosa che somigliava molto a una corrente (frazione la definirà poi lui stesso in Volevo la luna). Non si vuol dire a sua insaputa, il che sarebbe offensivo, ma certo senza il suo patrocinio e senza la sua direzione attiva. E la cosa anzi gli è stata rimproverata più volte.

Il maturare di un dubbio, sintesi inevitabilmente semplificata di molti dubbi (e sulla categoria del dubbio e sulla sua declinazione in Ingrao si vedano le pagine molto belle di Andrea Camilleri), che alla metà degli anni Sessanta diviene dissenso esplicito e rivendicato come tale (e, soprattutto, rivendicato come diritto nel modo di esistere dell’organismo politico), lo porta a venire identificato allora e in seguito come leader di una tendenza.

Torti e ragioni

I termini del contendere tra Ingrao e Giorgio Amendola (che venne identificato come il suo antagonista) sono molto lontani nel tempo, talmente lontani che Ingrao vi dedica pochi cenni nella sua autobiografia. All’inizio degli anni Sessanta, mentre si profilava la svolta del centrosinistra, tensioni e intelligenze inquiete tanto nel partito quanto nel sindacato cominciarono a interrogarsi sulle novità che intervenivano nella società e nella politica in Italia. Sulla proposta possibile di un nuovo modello di sviluppo dell’economia italiana, mentre il «miracolo economico» si affievoliva, lasciando dietro di sé una rivoluzione epocale che aveva infranto quello che a distanza di tempo venne definito il «blocco di quindici secoli» di una Italia contadina, quasi immutabile nei suoi fondamentali, e con tutti i traumi e gli squilibri che una trasformazione di questa portata metteva drammaticamente in luce. Si imponevano tanto una analisi del «neocapitalismo» italiano che sembrava trionfare, quanto delle implicazioni immediate e di prospettiva che la rottura dell’unità del movimento operaio comportava con l’ingresso dei socialisti nell’area di governo.

Retrospettivamente, lontani come siamo da quella contesa, potremmo dire che torti e ragioni erano frammisti in entrambe le letture contrapposte della società italiana che sottintendevano: c’era davvero un neocapitalismo dinamico, e al tempo stesso il capitalismo italiano conservava caratteristiche di arretratezza e arcaicità che sarebbero tornate ad emergere; il centrosinistra rappresentava una svolta, ma non l’«integrazione» della classe operaia nelle logiche di un sistema, come le lotte alla fine del decennio avrebbero evidenziato.

Quasi dimenticato nel tempo è invece l’avvio di quella contesa, che si può far risalire al dicembre 1964, nella scelta del gruppo parlamentare comunista diviso tra le candidature di Saragat e di Fanfani alla Presidenza della Repubblica, con ciò che sottintendevano in termini di alleanze da privilegiare, tra blocco laico o progressismo cattolico. Qui Ingrao sconfitto vide prevalere nel tempo lungo la sua opzione, ma in circostanze diverse da quelle immaginate e dopo il dissolvimento della nebulosa che attorno a lui si era creata.

Ma ci sono alcune particolarità nel percorso di Ingrao su cui è opportuno suggerire una riflessione futura. La sua vita politica molto intensa lo ha visto impegnato soprattutto nel giornale di partito e nel Parlamento, assai poco nelle strutture del partito vero e proprio, dove non ha mai ricoperto incarichi direttivi, salvo una breve permanenza nella Segreteria.

Pietro Ingrao è stato certamente «uomo di partito» e tra i più rappresentativi del comunismo italiano, dirigente amato dal popolo comunista, pur senza esser mai né populista né «capopolo». Ma fu soprattutto «uomo delle istituzioni», da gestire e da riformare. Capogruppo alla Camera dei deputati, succeduto nel ruolo a Togliatti e perciò indicato da taluni come «delfino», ricoprì poi il ruolo di Presidente della Camera tra il 1976 e il 1979.

Fu allora uomo della «centralità del parlamento», come ricorda giustamente Mario Trontinella sua Lezione del 2010 su Persona e politica. Cosa si vuol dire? Va ricordata la particolarità della breve legislatura della Presidenza Ingrao. C’era un governo di minoranza, che si reggeva su astensioni concordate, e c’era, soprattutto, un Parlamento che legiferava liberamente senza schieramenti precostituiti, e che approvò leggi importanti e fondamentali tanto sul piano civile che sul piano sociale. Anche su questo terreno, l’ultimo Ingrao è molto sbrigativo e nell’autobiografia parla pressoché esclusivamente del «rovello» legato alla mancata liberazione di Moro (fu tra i destinatari delle sue lettere). Ma i termini più propri e specifici dell’impegno politico di Ingrao in quegli anni furono quelli legati alla costruzione di una democrazia, alla «nuova relazione fra Stato e popolo» che emergeva dalla Costituzione, alla necessaria riforma di quel rapporto attraverso una relazione più ricca tra Parlamento e «trama delle assemblee elettive locali», che diverrà nel tempo vero e proprio progetto di riforma complessiva delle istituzioni, l’ultimo progetto, se pure indefinito nelle sue articolazioni, di riforma istituzionale nel quadro della fedeltà ai principi costituzionali e in clima di massima solidità ed espansione di un «sistema dei partiti» del quale pochi cominciavano ad avvertire le prime crepe.

Quale fosse lo spirito che animava la sua presidenza si può cogliere benissimo nel discorso alle acciaierie di Terni del 10 febbraio 1978, dove Ingrao non parla da ospite o da autorità in visita istituzionale, ma si pone alla pari con gli interlocutori. Non parlo ad estranei – dice rivolgendosi agli operai – «parlo a gente che sta alla radice delle norme solenni scritte in quella carta: parlo a “fondatori”, a “costituenti”». Chiedeva loro di entrare nelle istituzioni recando con sé tutti i problemi e la sapienza che il loro vissuto faceva emergere, per arricchire un patto costituzionale da rendere concreto e operante.

Una curiosità interrogante

Finita per sua volontà quella esperienza, Ingrao scelse di dedicarsi attraverso il Centro per la Riforma dello Stato alla questione dello Stato da ripensare, al rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diffusa, tra istituzioni e società come asse di ricerca per una possibile transizione al socialismo, con quella «curiosità interrogante» che ha caratterizzato negli anni l’atteggiamento del personaggio di fronte ai suoi tempi.

Ci sono però tre ordini di problemi da distinguere nettamente:

1) c’è l’Ingrao storico, che dovrà essere pazientemente ricostruito attraverso le sue Carte, che qui iniziano a vedere la luce, documenti che soli potranno consentire la ricostruzione del suo agire politico nel tempo e della dimensione culturale (e letteraria) che fu sempre strettamente connessa alla sua azione.

2) c’è l’Ingrao che ognuno si è costruito (come nota Stefano Rodotà) attraverso il proprio particolare, più o meno inteso «ingraismo», o attraverso una valutazione comunque partecipe pur se distante. Proprio le caratteristiche di leader «riluttante» che abbiamo ricordato hanno fatto sì che Ingrao divenisse simbolo di qualcosa difficile da definire in termini univoci, ma comunque lievito e stimolo per tanti.

3) e infine a complicare le cose c’è anche l’Ingrao di Ingrao medesimo. C’è in particolare l’ultimo periodo di ricapitolazioni autobiografiche (non solo il Volevo la luna, ma anche gli articoli sulla Rivista del manifesto, le molte interviste e i libri che ne sono a volte scaturiti) che suscita molte perplessità. Perché Ingrao si è dedicato ad autocritiche che andavano spesso al di là del dovuto e del logico per diventare autoflagellazioni. E soprattutto perché l’ultimo Ingrao sembra in qualche misura avere interiorizzato e fatto proprie raffigurazioni diffuse e riduttive che sono a lungo circolate sulla sua opera complessiva. Accenno soltanto alla rivendicazione ricorrente e quasi predominante della forza dell’utopia, e addirittura l’autodefinirsi acchiappanuvole (e senza virgolette) per rafforzare questa immagine.

Credo che sia necessario però uscire dalle nebbie dell’«ingraismo», pur senza trascurare ovviamente la forza di miti che vivono di vita propria e assumono forza di suggestione.

Bisognerebbe invece ripartire da un’affermazione molto importante di Stefano Rodotà nella sua bella introduzione agli scritti di Ingrao sulla condizione operaia, e che rovescia il senso delle immagini ricorrenti. A ben vedere non è paradossale affermare che su questo terreno l’Ingrao politico fu «il più realista di tutti». Nell’Ingrao che si occupa del lavoro c’è superamento dell’economicismo, proprio di tanta parte dell’approccio politico e sindacale. C’è la percezione evidente dell’attacco al lavoro, e ai lavoratori in carne ed ossa, con tutta la disumanità e l’alienazione che questa comporta. Non è un caso che ricorra tante volte nelle memorie di Ingrao il Chaplin di Tempi moderni, che sembra avere influenzato in forma duratura la sua percezione della modernità. Nell’articolo su La Tipo e la notte da cui prende titolo il volume (sul manifesto del febbraio 1993) si parla dell’introduzione del lavoro notturno come norma nella Fiat di Melfi, con lo sconvolgimento dei ritmi di vita, di affetti, dei rumori e dei silenzi che questo comporta. C’era in questi scritti la capacità di cogliere il senso della precarietà prima ancora che essa venisse riconosciuta come componente essenziale della nuova condizione lavorativa e delle implicazioni reali di una «flessibilità» che cominciava a imporsi come modello obbligato e indiscusso. Ma soprattutto – in questo credo risieda il vero «realismo» di Ingrao – c’era la consapevolezza di parlare sempre di persone reali, non di modelli sociologici ed economici, con tutto il rispetto che alle persone è dovuto.

Gli uomini che volano

A proposito di eresie, dopo aver citato Cantimori, mi viene in mente anche un’autodefinizione di Eugenio Garin, che si definì spesso «un eretico». Ma con una precisazione singolare e importante, scritta nel 1960: «l’eresia è feconda in quanto non si estenua in una protesta anarchica, ma è eresia dentro un’ortodossia». Questa concezione dell’«eretico all’interno di una ortodossia», è meno stravagante di quanto possa sembrare a prima vista, in quanto i due termini si sostengono a vicenda e sono entrambi necessari. L’eresia ha un senso solo se nasce all’interno di un grande progetto, e l’eretico è tale solo se è parte di una comunità, di cui condivide gli obiettivi di fondo.

C’è un racconto molto suggestivo nel Sarto di Ulm di Lucio Magri, per citare un altro grande politico e intellettuale che fu vicino alle suggestioni di Ingrao. Nella prima pagina del libro Magri scriveva che l’idea del titolo gli era venuta ricordando un’affollata assemblea in cui Ingrao, dopo la Bolognina e in polemica con Occhetto, aveva citato scherzosamente la poesia di Brecht sul sarto che voleva volare. E proseguiva: «Tuttavia, commenta Brecht – alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare».

Questa cosa però non esiste in Brecht, era un’aggiunta ottimistica di Ingrao. Il sarto si spiaccica al suolo, e il vescovo conferma che l’uomo non può volare, e Brecht qui si ferma. Ma quell’aggiunta ci fa capire la disposizione mentale di Ingrao: volare davvero, arrivare alla luna, non solo volerla, assieme a milioni di altre persone che sognano la stessa conquista.