A partire dalla caduta del muro di Berlino, il dibattito alla natura, alla protezione e all’implementazione dei diritti umani, è tornato ad essere rilevante tra gli addetti ai lavori. Da un lato, la fine dell’esperienza sovietica ha comportato il tramonto dell’universale assoluto, per cui la sintesi dei tre principi di libertà, uguaglianza e fraternità tentata all’ombra del Cremlino si è rovesciata nel suo opposto. Dall’altro lato, il neoliberismo e la globalizzazione hanno inferto colpi letali all’impalcatura socialdemocratica eretta dopo la crisi del 1929. I diritti sociali sono stati espunti dalla scena pubblica, quelli politici sono stati declinati in termini particolaristici, calibrati su misura di nazionalismi riesumati e ricostruiti frettolosamente, quelli civili sono stati subordinati alle emergenze di turno, come ci dicono Guantanamo e Abu Ghraib. Eppure, da altre parti, in particolare in Sud America, si cercano di sperimentare nuove sintesi tra i tre principi della rivoluzione francese. Nel nostro Paese, rimane in vigore una Costituzione che, nell’articolo 3, riconosce l’uguaglianza dei cittadini. Cosa succede a questo articolo? Quanto, e come, viene applicato? A queste domande, tenta di rispondere un libro a più voci, Articolo 3. Primo Rapporto sullo Stato dei Diritti In Italia, curato da Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Lorenzo Fanoli (Ediesse, pp. 306, euro 16).

Muovendo dal presupposto che il sistema dei diritti e delle garanzie possiede una sua efficacia nella misura in cui segue il principio della declinazione unitaria, e non particolarista, gli autori ci forniscono una mappa aggiornata dei vari ambiti della vita pubblica e privata nei quali si articolano i diritti. Sull’onda dell’insegnamento di Norberto Bobbio, che parlava di «generazioni di diritti» in relazione con le lotte per il loro riconoscimento, troviamo affrontati temi classici, come quelli dell’habeas corpus, dei diritti dei detenuti, del lavoro, dell’istruzione, con quelle che potremmo definire le nuove specificazioni dei diritti: l’ambiente, l’omosessualità, la disabilità, la libertà di culto (aspetto peculiare del nostro Paese), l’ambiente, i migranti. Il quadro che ne viene tracciato si presenta in modo contraddittorio, in parte negativo, ma non del tutto irreversibile sotto il profilo dell’implementazione dei diritti.

Sicuramente, l’articolo 3 della nostra Costituzione, è lungi dall’essere applicato. La crisi economica, l’egemonia liberista, i discorsi e le pratiche securitarie, rappresentano barriere più che ostiche per il raggiungimento dell’obiettivo.

Tuttavia, scorrendo le pagine del volume, emerge una riflessione molto importante sul futuro dei diritti, in particolare in Italia. Tutte le soggettività vecchie e nuove, che si muovono all’interno dello scenario delle inclusioni, chiedono il riconoscimento da parte dell’autorità statuale. Ne consegue, nei casi in cui la risposta che ricevono è positiva, una biforcazione rispetto all’esito effettivo. Da un lato, lo Stato, nella misura in cui riconosce un gruppo sociale specifico come portatore dei diritti, svolge un’azione proattiva, promuovendo le misure legislative per implementarle. Dall’altro lato, come nel caso delle leggi contro l’omofobia, il femminicidio, l’odio razziale, è costretto ad ad adottare misure repressive, che prevedono l’utilizzo della sfera penale, quindi una riproduzione del clima di diffidenza e arroccamenti particolaristi. Il problema è: quanto è efficace l’azione repressiva nel promuovere il rispetto dei diritti? Fino a che punto la punizione di certi comportamenti comporta la violazione di altre libertà?

Ad esempio, alcuni anni fa, il governo austriaco, condannò alla detenzione lo storico inglese David Irving, autore di diversi libri negazionisti. Da più parti si levò il dubbio che non si potesse combattere l’odio razziale per mezzo della limitazione della libertà di pensiero. Come si esce da questo impasse? Bisogna passare, ci dice Eligio Resta, dal riconoscere al riconoscersi, quindi passare dallo stato alla società. Il processo di riconoscimento, fondato sul principio della dignità, che riconosce pari agibilità ad ogni richiesta di inclusione, consente di superare la cornice nazionalista che ha limitato i diritti, impedendo la possibilità di riconoscerli come prerogative delle singole persone e non come privilegi di comunità nazionali o di gruppi di pressione. La dignità deve sostituire la categoria del decoro, che, in vigore in era pre – moderna, è tornata in auge negli ultimi anni sotto la nuova denominazione di «merito», che ultimamente, dalle parti di Palazzo Chigi, viene ripetuta con una certa preoccupante regolarità.