«Se avete un problema a capire se siete dalla mia parte o da quella di Trump allora non siete neri!», così Joe Biden lo scorso maggio, prima ancora di avere la certezza di essere il candidato democratico alla presidenza Usa ha risposto al conduttore radiofonico Charlamagne Tha God, protagonista di uno dei podcast più seguiti dai giovani neri americani, The Breakfast Club. Per Biden è stata senza dubbio una delle gaffe a cui il pubblico è abituato. Anche se per otto anni è stato il vice del primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti, i democratici hanno troppo spesso dato per scontato il voto nero, pensandolo come un dato di fatto. Se è vero che dal 1964 i candidati democratici non hanno mai ottenuto meno dell’80% dei voti degli afroamericani, è però altrettanto vero che i neri hanno spesso preferito non votare, non sentendosi rappresentati dai pretendenti alla Casa Bianca. Nel 2016 solo il 60% della popolazione nera ha espresso la propria preferenza, senza dubbio danneggiando in alcune aree le chance di Hillary Clinton.

LA PANDEMIA
Nel 2020 lo scenario però è ulteriormente cambiato: la pandemia ha colpito più duramente la comunità afroamericana (più del doppio rispetto alla media), il movimento Black Lives Matter ha riportato sulle strade le proteste razziali, il divario etnico è diventato un tema centrale della campagna elettorale. Sorprende quindi che ci sia un certo numero di artisti neri, in particolare rapper, che si è schierata con Donald J. Trump auspicando per lui altri quattro anni in Pennsylvania Avenue. Il pioniere di questi è senza dubbio Kanye West.
Nel dicembre 2016 incontrò l’allora presidente eletto Trump, diventando suo supporter. Nell’ottobre di due anni dopo si presentò nello Studio Ovale accompagnato dalla leggenda del football Usa Jim Brown con in testa il cappellino rosso con la scritta «Make America Great Again». «Quando metto questo cappellino, mi sento come Superman», dichiarò il divo, inscenando un incontro tanto surreale da ricordare quello tra Elvis Presley e Richard Nixon. West mostrò al Presidente il suo cellulare con le fotografie dell’aereo all’idrogeno che secondo lui doveva sostituire l’Air Force One, offrì la sua opinione sull’emendamento costituzionale che aboliva la schiavitù, parlò del suo quoziente intellettivo e dei suoi disturbi di personalità. «L’evento più sconclusionato a cui abbia mai assistito nello Studio Ovale», commentò una reporter perplessa. West ha terminato il quadriennio addirittura diventando una pedina del Presidente. Lo scorso luglio infatti ha proclamato la sua (fittizia) rottura con Trump, annunciando la sua corsa alla Casa Bianca come candidato indipendente. Negli Stati Uniti chi non viene scelto da uno dei due partiti del sistema bipolare diventa sempre un concorrente senza chance di vittoria, ma come hanno insegnato le elezioni del 2000 e del 2016 gli outsider sono in grado di raccogliere quelle poche migliaia di voti che possono far pendere la bilancia da una o dall’altra parte.
La candidatura del rapper è stata vista subito come un grande favore a Trump e un modo per far perdere voti a Biden. Ma è stata un disastro a tutto tondo. Sin dalle prime mosse si è capito che dietro la sua discesa in campo c’era un gruppo di consulenti del Partito repubblicano e la disorganizzazione è stata totale. West alla fine è riuscito a presentare il suo nome sulla scheda in soli 12 stati, investendo milioni di dollari di tasca sua e tenendo un comizio in cui, vestendo un giubbotto antiproiettile, criticava l’eroina nera dell’antischiavismo Harriet Tubman. Un flop paragonabile alle sue ultime uscite discografiche. Il tentativo di far perdere voti neri a Biden ha solo fatto perdere la faccia all’artista, che nella sua ultima masochistica boutade ha girato un video in cui urinava su un premio Grammy.

RABBIA E COERENZA
Ma se West da tempo ha perso contatto con la realtà, altri nomi che si sono schierati con Trump hanno destato più sorpresa. Ice Cube, oggi famoso attore, artista solista e ex membro dello storico gruppo rap N.W.A, ha annunciato di essere al lavoro con Trump per la stesura di un piano programmatico per gli afroamericani, il Platinum Plan. «Sono disposto a lavorare con entrambi gli schieramenti – ha detto la star – ma sto lavorando con chi si è dichiarato disposto a fare lo stesso con me». L’artista è stato sommerso da critiche soprattutto di chi si ricordava le sue parole della canzone Fuck tha Police e le sue rime anti-sistema quando era la voce più potente e trasgressiva della scena rap. In pochi si sono ricordati che anche il leader degli N.W.A Eazy-E, scomparso nel 1995, aveva sostenuto finanziariamente la campagna di George Bush Sr.
Qualcuno ha fatto notare come i divi del rap, che glorificano il successo e amano ostentare il lusso, sarebbero gli elettori ideali di una parte politica che taglia le tasse ai ricchi e si dichiara paladina dell’ impresa privata. Forse anche per questo un altro pezzo grosso dell’ hip hop, Lil Wayne, ha dato il suo sostegno a Trump. «Ho appena avuto un grande incontro con Donald Trump – ha dichiarato via Twitter -. Accanto a quello che ha fatto per la riforma del sistema penale, il Platinum Plan darà alle comunità reale proprietà. Mi ha ascoltato e assicurato che realizzerà quello che ha promesso».
Anche Curtis «50 Cent» Jackson, ultimamente più attore che rapper, ha fatto sentire la sua voce contro Joe Biden. Dopo aver scoperto che il democratico aveva nel programma l’aumento delle tasse ai ricchi ha scritto sui social: «Che cazzo! Io non ci sto. Votate per Trump. Non importa se non gli piacciono i neri». «Non voglio diventare 20cent», ha aggiunto. Travolto dalle polemiche, 50 Cent ha in parte ritrattato, ma ha messo in chiaro che il fascino dei repubblicani per alcune star nere è più legato al fisco che all’interesse per i problemi della comunità. È esattamente quello che pensa anche Lil Pump, artista di origini colombiane della Florida noto per la hit Gucci Gang, che a ottobre ha invitato tutti a votare il presidente in carica contro il piano fiscale di Biden. Altri artisti dell’universo hip hop che hanno dimostrato apprezzamento per The Donald sono stati BlocBoy JB e il newyorkese Fivio Foreign. Prima però di dire che il mondo del rap ha tradito la causa della giustizia sociale vale la pena ricordare come tanti artisti abbiano scelto di stare da un’altra parte. È il caso di Lil Baby, uno dei nomi oggi più in voga, che con la sua The Bigger Picture a sostegno del movimento Black Lives Matter dice delle elezioni: «Dobbiamo partire da qualche parte. Potremmo partire da qui». Oppure degli artisti che hanno partecipato alla compilation Reprise, prodotta dalla Roc Nation di Jay-Z, che raccoglie 11 canzoni di protesta.
Il 2020 ha visto anche il ritorno discografico di alcuni tra i rapper più impegnati: le leggende hip hop Public Enemy e Paris che già nel ’92 scandalizzò con un brano in cui si rappresentava come il killer del presidente George H.W. Bush. Ma più che le rime e i campionamenti nel 2020 parlano i numeri. Il divario tra bianchi e neri negli Usa è a livelli di allarme sociale. La famiglia media bianca è di 11,5 volte più ricca della famiglia media afroamericana. Solo il 40% dei neri ha una casa di proprietà, il dato più basso tra tutti i gruppi etnici. Nel 2020 più di 140 afroamericani sono stati uccisi durante operazioni di polizia.
I neri sono anche la categoria in proporzione più rappresentata tra la popolazione carceraria. Questo sistema non è stato creato certo da Donald Trump e non verrà cambiato da una sola tornata elettorale.