Protagonista e testimone di un bel tratto di storia del cinema e del teatro, Lino Capolicchio ha lavorato con Strehler, Zeffirelli, De Sica, De Santis, Lizzani. Una carriera iniziata a metà anni Sessanta e costellata di film più e meno popolari – «adoro Amore e ginnastica» dice – che lo ha portato poi a insegnare al Centro sperimentale, a scrivere sceneggiature e a dirigere due film (Pugili e Diario di Matilde Manzoni) e due allestimenti d’opera (La Bohème e Manon Lescaut). I suoi tanti incontri, da Liz Taylor a Silvana Mangano, da Anna Magnani a Carmelo Bene, sono ora narrati nell’autobiografia D’amore non si muore (CSC-Rubbettino), titolo che ironizza su una piéce di Patroni Griffi in cui il suo personaggio finiva suicida per amore: «Ma un amore finito può essere devastante, la vita scorre senza curarsi delle nostre delusioni e bisogna essere forti, come in teatro. Per fare l’attore oltre al talento e allo studio ci vuole carattere».

Ci parliamo dopo una serata al Museo Interattivo del Cinema di Milano in cui alla presentazione del libro è seguita la proiezione di La casa delle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati – digitalizzato dalla Cineteca Nazionale. Racconta che ama scrivere- «Mi riesce facile mettere insieme i dialoghi» – e che per il libro si è riletto tutti i diari scritti dai diciotto anni in poi.

Il suo amore per l’arte nasce nell’infanzia, sostenuto unicamente da sua madre.
Sì, con lei fu amore sin dall’inizio. Al contrario, mio padre diceva che se avessi fatto l’attore sarei finito a chiedere l’elemosina sotto i ponti. Per lui il soldo era vitale, aveva una fabbrica di legname e voleva che io fossi il suo successore, a me però non interessava. Ero un bambino che s’incantava davanti a un quadro, che piangeva al suono della musica, avevo una sensibilità artistica che lui non capiva e non accettava. A sette anni mi mandò in collegio e non gliel’ho mai perdonato.

Si può dire che alcuni registi sono stati per lei delle figure paterne?
Sì, per esempio Strehler aveva nei miei confronti un atteggiamento molto paterno. Io avevo 21 anni e lui mi aveva visto recitare nel saggio finale all’Accademia Silvio D’Amico su suggerimento di Valentina Cortese. Mi diede un appuntamento a Milano e, dopo tre ore di anticamera, fu molto burbero, quasi sgarbato, ma mi disse due cose fondamentali: «Al saggio eri l’unico che non puzzava d’accademia». E: «Sei un ragazzo di talento e ti metterò presto alla prova». Così fu con Le baruffe chiozzotte.

A 22 anni era sul set di «La bisbetica domata» di Zeffirelli con Liz Taylor e Richard Burton: che ricordi ha di quell’esperienza?
In quel film ci sono ma da «non accreditato», Zeffirelli mi fece un provino per una piccola parte che nella mia presunzione rifiutai ma nel montaggio finale è rimasto un campo lungo in cui mi si intravede sullo sfondo mentre prendo calci nel sedere da Burton. Liz Taylor era una diva, prosperosa, e quando mi disse «Hello» con un gran sorriso corsi a dirlo a mia madre che ogni volta rimaneva incredula sentendo i miei racconti.

Come si sentiva lei, così giovane, nell’incontrare questi pesi massimi del mondo della cultura e dello spettacolo?
Da un lato c’era soggezione, dall’altro incoscienza. Andavo a pranzo con Ennio Flaiano, Natalia Ginzburg e suo marito come fosse normale, come mi fosse dovuto. Ero presuntuoso.

Però aveva fatto buoni studi che la aiutavano…
Naturalmente, amavo le arti e leggevo molto. A 15 anni leggevo Kafka, a 17 anni tutto Shakespeare, Joyce, Proust, Dostoevskij, Thomas Mann, Musil. Poi ho studiato pianoforte, mi piaceva la pittura. Sono stato amico di Zurlini con cui non parlavamo di cinema, solo d’arte. Un giorno per poco non mi picchiava perché avevo osato dire che mi piacevano i preraffaelliti. Per lui era kitsch, diceva: «Il grande artista va per sottrazione». Da giovane Zurlini aveva grandi spalle e mi ricordava mio padre. Eravamo molto amici ma non abbiamo mai lavorato insieme. Un giorno gli dissi: «Meno male che Il giardino dei Finzi Contini l’ha fatto De Sica e non tu perché altrimenti non avrei avuto la parte».

Prima ancora di vincere l’Oscar, «Il Giardino dei Finzi Contini» (1970) è già un film importante per lei: incontra De Sica, lavora con Helmut Berger, Romolo Valli, Dominique Sanda. Come fu il set?
Leggendo il romanzo sognavo di avere la parte del protagonista nel caso se ne fosse fatto un film, oltretutto Bassani era stato mio insegnante in storia del teatro all’Accademia. Sognare non costa nulla e a volte i sogni si avverano. De Sica non era semplicemente un grande regista, era un monumento del cinema e sul set noi attori eravamo emozionati come bambini. De Sica era delizioso nella vita ma terribile sul set, quasi come Strehler. Allora i registi erano molto duri anche se con me lui era carino. Una volta dovevamo girare un primissimo piano e si raccomandò: «Questo è forse il momento più difficile di tutto il film perché attraverso i tuoi occhi devo leggere tutta una serie di passaggi psicologici del personaggio. Vai a concentrarti e quando sei pronto mi dici ‘Commendatore sono pronto’. Quando fui pronto girammo ma lui mi disse: ’Il campo è molto stretto quindi quando esci devi farlo più lentamente’. Ripetemmo e mi fece capire che andava bene e potevo andare. Mentre mi dirigevo verso il mio camerino, sentii una mano sulla spalla e la sua voce: ’Guaglio’, tu tieni talento’. Sono quasi svenuto dall’emozione.

In tv ha lavorato anche con Ugo Gregoretti, cosa ricorda di quell’esperienza?
Mi aveva chiamato per Il circolo Pickwick ma ero impegnato però mi era sempre rimasta la curiosità di lavorare con lui che stimavo e trovavo raffinato. Quando mi chiamò per La casta fanciulla di Cheapside (1979) accettai subito. Fu molto piacevole. Ricordo quando mi disse: «Durante le riprese non me ne ero accorto ma al montaggio ho notato che sei bellissimo!». Quando girai Diario di Matilde Manzoni (2002) mi telefonò dicendomi: «Abbiamo perso un attore ma abbiamo acquisito un regista, il tuo film è un gioiello». Fu una grande soddisfazione. Anche Florestano Vancini mi chiamò per complimentarsi, che persone!

La sua prima regia è stata per «Pugili» (1996): perché ha scelto quello sport?
Amo gli sport in cui si è soli davanti alle difficoltà, come in teatro. Il ring è emblematico della vita, un combattimento ad alto rischio. Avevo scritto una sceneggiatura su Tiberio Mitri dal titolo Stella cadente, mi interessava la storia di un ragazzo povero, bello e atletico diventato prima campione europeo poi volato in America per il titolo mondiale. Contro Jake La Motta, che era una specie di muro insuperabile, ha resistito 15 riprese ma quei pugni lo hanno logorato nel fisico e forse anche nella mente. Purtroppo il film era troppo costoso, lo voleva fare una società americana ma imponeva condizioni che lo avrebbero snaturato e ho rinunciato. Però l’ufficio stampa della federazione pugilistica italiana aveva apprezzato il copione e mi consigliò di scrivere un film economicamente fattibile per ricevere un aiuto dalla federazione. Così ho scritto Pugili, quattro storie in cui faccio recitare attori che sembrano pugili e pugili che sembrano attori. È allora che ho scoperto Pierfrancesco Favino, faccia giusta e capacità incredibile di rendere qualsiasi accento.

Vedremo il suo terzo film da regista?
Ho un progetto con Storaro ambientato tra fine Settecento e inizio Ottocento. Ho scritto la sceneggiatura e spero di dirigere il film, chissà.