Pier Vittorio Tondelli coglie più di altri autori della sua generazione un momento di passaggio di epoca, finiti gli anni dell’ideologia, e i veti nei confronti del romanzo, dopo quelli del riflusso, della disillusione e della disperazione, arrivano gli sfavillanti e illusori anni ’80, l’orgia di merci, la tv commerciale, il drive in, e cambia tutto.

CAMBIA LA SOCIETÀ, la politica, l’immaginario, cambia la cultura, così come la letteratura. È il giovane scrittore generazionale (un’altra categoria editoriale molto in voga allora) di Altri libertini, quello «post politico» che legge Selby Jr di Ultima fermata a Brooklyn, Easton Ellis, il McInerney de Le mille luci di New York e riscopre le storie, «il Bukowski emiliano», come lo definiscono, già affermato anche nel mercato internazionale, ma è anche lo studente del Dams allievo di Umberto Eco che si laurea con una tesa sul romanzo epistolare dell’Ottocento, recupera alcuni autori della tradizione come D’Arzo e Delfini, riscopre un eccentrico assoluto come Carlo Coccioli, e dei tre primi maestri ispiratori riconosce alcuni aspetti fondamentali della sua scrittura: «Louis-Ferdinand Céline per quanto riguarda il ritmo, Gianni Celati per un certo stravolgimento di sintassi e un’attenzione per la ’scrittura bassa’, Alberto Arbasino per il cicaleccio e la sinuosità del periodo», come spiega a Giovanni Mameli de L’Unione Sarda in una intervista del dicembre del 1982.

GIÀ GIOVANISSIMO diventa la punta dell’iceberg di una nuova onda, insieme ad autori tra di loro diversissimi molti dei quali nati dentro il movimento bolognese del ’77 come Enrico Palandri, Claudio Piersanti, e altri come Daniele Del Giudice, quella che è stata storicizzata come «nuova narrativa italiana». «C’è stata una nuova generazione di autori – spiega a Giuseppe Marchetti di Teleparma – che ha portato avanti, credo, delle istanze letterarie nuove, non dico un modo nuovo di scrivere perché sarebbe troppo ambizioso, però certamente delle storie, anche una visione dell’Italia, forse più internazionale».

ORA TUTTA questa memoria di conversazioni avvenute tra il 1980 e il 1991 è raccolta in un libro, Viaggiatore solitario (Bompiani, pp. 432, euro 14) ordinata dal critico che ha curato con rigorosa dedizione tutte le opere dello scrittore di Correggio, Fulvio Panzeri, studioso anche di Pasolini e Testori, purtroppo prematuramente scomparso di recente, che dell’inventore delle antologie «under 25» uscite da Transeuropa, le quali rivelarono autori come Romolo Bugaro, Andrea Canobbio e Giuseppe Culicchia, tra gli altri, aveva la stessa curiosità militante nei confronti dei libri degli altri, soprattutto se esordienti, recensiti sulle pagine culturali di Avvenire, che oltre alla illuminante prefazione firma anche una lunga intervista, «Il mestiere di scrittore».

In questi colloqui a microfono aperto Tondelli spiega con la chiarezza e la sincerità che lo contraddistinguevano la genesi dei suoi romanzi, ma soprattutto riflette sulla sua idea di letteratura e sul suo essere scrittore, idee in progress che cambiano di libro in libro, quindi seguendo la curva cronologica si rivela anche un testamento letterario, prova di una condotta complessa che partendo dai primi libri giovanili arriva alla maturità di Camere separate (1989) e Un week end postmoderno (1990), pubblicato un anno prima di morire di Aids a soli 36 anni, uno zibaldone-reportage nella provincia italiana sui movimenti artistici, le mode, i miti e i riti giovanili degli anni ’80.

LEGGENDO queste interviste, sin dall’uscita di Rimini (1986), il suo terzo romanzo, si capisce che è un isolato, «completamente fuori dall’accademismo di questa boriosa e vecchissima letteratura di vecchi fatta per i vecchi» afferma rispondendo a Giancarlo Susanna, e vuole essere uno scrittore e basta, un radar che intercetta le frequenze del suo tempo, il bisogno di narratività, interpretando la fine dello scrittore engagé: «Non mi sento assolutamente un intellettuale, perché non mi sento di dare alcun giudizio sulle idee, sulla vita, sul mondo – dice rispondendo alle domande di Pietro Spirito -. Mi sento una persona che è in grado di costruire dei personaggi, conscio che lo scrivere è in un certo modo un fatto artigianale che presuppone una dedizione totale».

Confesserà proprio a Fulvio Panzeri «quello che mi affascina – che è solo della scrittura – è la possibilità di parlare a una persona, di avere un rapporto con il lettore, che è di uno a uno (…) Poi c’è il piacere della manipolazione linguistica, la gioia di inventare e divertirsi con il linguaggio», e anche un denudamento narcisistico, quello che Tondelli chiama uno striptease. «Lo scrittore vive solo in questo gioco del nascondersi e del mostrarsi. C’è un piacere nel farsi vedere nudi, nell’esibire le proprie ferite o il proprio dolore».