Un anno fa, il 25 gennaio, si spegneva a Managua a 93 anni la poeta nicaraguense-salvadoregna Claribel Alegría. Aveva ricevuto appena due mesi prima il prestigioso Premio Regina Sofia per la Poesia Iberoamericana. E lì a Madrid aveva potuto festeggiare anche il contemporaneo annuncio che nell’aprile successivo sarebbe toccato a Sergio Ramirez (ex vicepresidente durante tutta la Rivoluzione Popolare Sandinista) di essere insignito del Premio Cervantes. In soli cinque mesi al Nicaragua venivano attributi i due massimi riconoscimenti letterari del mondo ispanico. Eppure, entrambi passarono sotto un assordante silenzio nel Nicaragua del fu comandante guerrigliero Daniel Ortega; oggi convertitosi in tiranno, insieme alla moglie Rosario. Ma Claribel Alegría si è risparmiata la tragedia in corso nel tormentato paese dell’istmo centroamericano, con la straordinaria rivolta dei millennials nicaraguensi, soffocata nel sangue dalla coppia di satrapi presidenziale al potere.
Di seguito, l’ultima intervista alla scrittrice, che sin da piccola fortissimamente volle diventare poeta-donna contro i venti e le maree del machismo d’antan latinoamericano. In Italia, sono stati tradotti tre dei suoi libri: Amore senza fine (Fili d’Aquilone, 2018); Voci (Samuele Editore, 2015); Alterità (Incontri Editrice 2012).

«Ho iniziato a scrivere poesie verso i quattordici anni. Stavo leggendo Lettere a un giovane poeta del vate ceco Rainer Maria Rilke. Ne rimasi talmente affascinata che da quel momento esprimermi attraverso un poema è diventata per me una necessità. Scrivo a mano, su un quaderno, recitando i versi poi ad alta voce. Solo successivamente li passo al computer; e lì faccio le mie correzioni. Non potrei mai comporre una poesia al computer. Perderei la musa ispiratrice. Il mio mentore fu il poeta spagnolo (e Nobel, ndr) Juan Ramon Jimenez. La poesia mi mantiene in dialogo e alla permanente ricerca di me stessa. È la mia forma migliore di comunicare con gli altri. Mi sento di questo mondo, godo di questo mondo e soffro con questo mondo, perché è un luogo di dolore ma anche di amore, di gioia e di bellezza. E tutto ciò, la poesia lo rende immortale.

Ci può riassumere le tappe principali  del suo percorso letterario?
Ho esordito con una poesia puramente lirica. Ero incuriosita dalla natura, dal semplice sbocciare di un fiore; curiosa di tutto e, in particolare, dell’amore. Non mi veniva in mente di poter scrivere poemi a partire dalla realtà sociale. Nel Centro America di allora, governato da spaventose dittature come quella di Somoza in Nicaragua, sembrava impossibile poter fare qualcosa. Ma nel 1959 arrivò la Rivoluzione cubana. Rimasi meravigliata che un così piccolo paese avesse potuto sfidare il colosso degli Stati Uniti. «Se ce l’hanno fatta loro – mi dissi – possiamo farcela anche noi». E cominciai a guardare e scrivere oltre il mio ombelico, riflettendo sui nostri popoli oppressi. Ma non mi piace il cosiddetto genere della poesia impegnata. La poesia non deve fare compromessi né essere al servizio di nessuno. La sua essenza è racchiusa nello scrivere e riscrivere al meglio un poema. Non ho niente contro i pamphlet. Ma un pamphlet è un pamphlet. E un poema è un poema. E a quelli che sostengono che i miei sono versi politici, ho sempre risposto che la mia è una poesia di puro amore verso la mia gente.

Uno dei temi centrali della sua vena poetica è, infatti, l’amore, nelle sue differenti manifestazioni…
L’amore è la cosa più importante in questa vita. Che non significa solo dare amore; ma essere anche capaci di riceverlo. Certo bisogna cominciare da quello verso sé stessi. I miei figli mi chiedono sempre quale sia il segreto di una relazione duratura. Rispondo loro che ci deve essere amore e al contempo una grande amicizia. Senza quest’ultima, tutto appassisce. Con Bud sono stata molto felice; fra alti e bassi, come normale. Ci siamo amati fino all’ultimo. Chissà se, come ho scritto in una poesia, lui sia oggi un atomo di luce, e se io mi riconvertirò pure in un altro atomo e ci si possa un giorno reincontrare.

Come spiega tanta concentrazione di poeti in Nicaragua? Ernesto Cardenal, Gioconda Belli e molti altri…
Qui la poesia regna fin da tempi lontani. Si racconta che il primo poeta fu il cacicco indigeno Nicarao, che passeggiava per le spiagge del Pacifico, alticcio, recitando i suoi versi. Poi, nel secolo scorso, è arrivato quel genio meraviglioso di Rubén Darío. È lui che ci ha dato l’imprinting.

Non le sembra che nel mondo impazzito di oggi la poesia si stia perdendo?
Non credo proprio. Si nasce poeti. I nostri primi balbettii sono da poeti. I versi vengono prima del linguaggio. Se morisse la poesia, con lei scomparirebbe l’essere umano.