Non sappiamo ancora in quali termini andrà in porto l’acquisizione di Rcs libri da parte di Mondadori. Ma nella storia dell’editoria italiana la fine è nota. La concentrazione dei marchi editoriali sotto il cappello dei grandi gruppi è un processo in corso da lunghissimo tempo e che non ha mai incontrato sostanziali ostacoli. Così come la proprietà e il controllo dell’intera filiera produttiva, distributiva e commerciale da parte dei medesimi gruppi.

Di tutto questo la platea piuttosto esigua dei lettori italiani non ha avuto e non avrà particolare percezione. Abituata da anni alla rapida rotazione dei titoli sui banconi delle librerie, assuefatta a un colpo d’occhio catturato dalle pile dei bestseller del momento e dalla proliferazione infinita dei titoli «di marca», indirizzata da un circuito di promozione mediatica governato ad arte dai potentati editoriali, difficilmente registrerà significativi cambiamenti. Le concentrazioni non hanno lo scopo di sfoltire e standardizzare, meno che mai quello di esercitare una censura politica o culturale.

Tutto al contrario puntano, sul piano dell’immagine, a esibire la molteplicità e la massima differenziazione dell’offerta. Su quello commerciale, a occupare e soddisfare tutti i segmenti del mercato. La grande produzione editoriale, come quella televisiva, ambisce a moltiplicare emittenti e contenuti proponendosi come protagonista di un’offerta culturale totale.

Questa “totalità” rileva, tuttavia, più ancora che per quel che mostra, per quello che nasconde. Quanto più fragoroso sarà il rumore, tanto più sopraffatte saranno le voci più sommesse, quanto maggiore lo spazio occupato, tanto minore la visibilità di chi opera fuori dal sistema dei grandi gruppi. L’ «omologazione» non agisce dunque sull’offerta culturale, ma più a lungo termine, più indirettamente, e su tutt’altro piano: quello della redditività e del calcolo costi/benefici.

Saranno infatti questi parametri a regolare il funzionamento complessivo del gruppo e dunque il peso specifico dei diversi marchi che vi afferiscono, nonché i relativi livelli di investimento. Con questi criteri dovranno confrontarsi la «creatività» e il «fiuto» delle diverse direzioni editoriali. Con una sorta di «politica monetaria» che pur non intervenendo direttamente sulle scelte delle singole imprese e sulle relative caratteristiche «identitarie», imporrà loro precisi vincoli.

Senza contare il fatto che queste concentrazioni sono destinate inevitabilmente a esercitare effetti negativi su quei livelli occupazionali che il mondo un tempo meno povero e più vasto dell’editoria indipendente era riuscito comunque faticosamente a garantire. Che gli indipendenti, elogiati a parole e ostacolati nei fatti, abbiano subito nel corso degli anni colpi sempre più duri, magari anche perché irretiti, più o meno consapevolmente, dall’ideologia dell’«imprenditore di sé stesso», è una circostanza sotto gli occhi di tutti. Con poche pur notevoli eccezioni, gli indipendenti sopravvivono a stento grazie alla stampa digitale (che consente bassissime tirature), al commercio on line e con il ricorso sempre più frequente al lavoro gratuito o sottopagato. Uno scandalo su cui poggiano ormai diversi comparti dell’economia italiana.

Non mancano, tuttavia, coraggiosi tentativi di reagire a questo stato di cose, come il «Book Pride» che si terrà la prossima settimana a Milano, una iniziativa autorganizzata di promozione e rilancio dell’editoria indipendente in un rapporto diretto con il suo pubblico. Quel rapporto che i circuiti istituzionali del libro impediscono ormai quasi del tutto. Nondimeno è improbabile che la produzione editoriale indipendente possa rompere l’accerchiamento con le sole proprie forze, restando arroccata entro i confini del settore e delle proprie, sia pur nobili abitudini e tradizioni.

In un momento in cui tanto si parla di «coalizioni» converrà applicarsi a ragionare anche su una possibile «coalizione culturale». Senza farsi prendere dal panico se questo percorso dovesse toccare, come dovrà, la dimensione politica.