A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo Lenny Bruce, nato Leonard Alfred Schneider, era la quintessenza dell’hipster: un Miles Davis ebreo che usava le parole al posto delle note. Ai suoi spettacoli assisteva tutta l’America progressista e, comunque, quella più cool: attori, musicisti, giornalisti, scrittori. I suoi monologhi venivano incisi e venduti come dischi di successo, e la produzione si sarebbe moltiplicata con le incisioni postume, uscite dopo che il comico più famoso e più bersagliato d’America era stato trovato morto, ucciso da una overdose di morfina, nel bagno della sua casa di Hollywood. Era il 3 agosto 1966. Lenny non aveva ancora compiuto quarantuno anni.
Di mestiere Lenny Bruce faceva il comico, ma la definizione gli andava stretta e se ne accorgevano tutti: in mancanza di meglio fu bollato come Sick Comic, comico malato, morboso perché rifuggiva i sentieri canonici e consacrati del cabaret a stelle e strisce. Detestava gli abituali Toilet Jokes, le barzellette triviali a cui ricorrevano a man bassa i colleghi, o le allusioni volgari all’aspetto fisico adoperate per far ridere senza sforzo la platea. Come molti pionieri ebrei della controcultura negli anni Sessanta, era un profeta e un moralista il cui bersaglio era sempre lo stesso, sia che parlasse di sesso e religione sia che strapazzasse i poliziotti e il sistema giudiziario: l’ipocrisia americana. Non voleva solleticare ma graffiare a sangue.

Nell’improvvisazione la sua cifra
Cresciuto nelle strade dei quartieri ebrei dello Stato di New York, lontano da Manhattan, marinaio durante la guerra e poi imbarcatosi di nuovo su un mercantile, arrivò sul palcoscenico quasi per caso, quando la madre Sally Marr, ballerina e performer di un certo successo, si trovò senza presentatore proprio mentre stava per andare in scena. Lenny creò uno stile, aprì una strada a tutti i grandi comici impegnati arrivati dopo di lui, che – a partire dall’insuperato Richard Pryor – hanno ammesso di camminare sulle sue orme.
Nessuno, fino a quel momento, aveva osato trattare i temi per nulla leggeri che lui scorticava con il lucido obiettivo di denunciare, non solo di far ridere. Nessun comico, inoltre, aveva mai fatto dell’improvvisazione la cifra del proprio stile: Lenny Bruce saliva sul palco avendo in mente un canovaccio molto approssimativo, a partire dal quale procedeva improvvisando con digressioni, interruzioni, ritorni repentini al tema di partenza. «È un sistema analogo allo Stream of Consciousness di James Joyce», spiegava, senza peraltro nascondere la somiglianza con quanto praticavano tutti i jazzisti, molti dei quali suoi amici.

Lo stesso Lenny riconosceva di attuare con parole e battute quel che Charlie Parker estraeva dal suo sassofono, influenzando non solo la musica ma l’intera cultura americana, da Jack Kerouac a Thomas Pynchon, come non si è ancora riconosciuto a sufficienza. Nei numerosi processi per oscenità nei quali Bruce si trovò imputato negli anni Sessanta, la difesa chiamava infatti alla sbarra (o comunque citava ampiamente), per chiarire le ragioni artistiche di un presunto turpiloquio, i principali critici jazz dell’epoca, come Ralph Gleason e Nat Hentoff.

Molto dello stile di Lenny Bruce si ritrova in Come parlare sporco e influenzare la gente, l’autobiografia scritta in più puntate per Playboy tra il 1964 e il 1965, con l’aiuto del giornalista e futuro militante yippie Paul Krassner, ora riproposta da Bompiani Overlook (nuova traduzione di Pier Francesco Paolini, con una inedita prefazione di Lewis Black, accostata a quella originale di Kenneth Tynan e a una introduzione scritta nel 2016 da Howard Reich, pp. 283, euro 18.00).

È, in realtà, una autobiografia per modo di dire, o almeno, molto sui generis. Alcune vicende, come la breve carriera di predicatore e truffatore, sono raccontate nel dettaglio, su altre e più rilevanti faccende, come il matrimonio e la sofferta separazione dalla moglie, la spogliarellista, Honey Harlow, si passa fin troppo velocemente. L’autore scrive come se stesse parlando direttamente al pubblico, dunque insiste sugli stessi passaggi e sugli stessi temi che portava ogni sera in primo piano sul palcoscenico, così che leggere il suo libro si traduce nell’assistere a uno dei suoi spettacoli, strappandoci sonore risate e la scoperta della logica e delle strategie sulle quali Lenny Bruce puntava per svelare l’ipocrisia americana, da sempre il suo principale e forse unico obiettivo.

Anche da questo punto di vista, l’ultima parte del libro, dedicata quasi esclusivamente a raccontare la vera e propria persecuzione poliziesca e giudiziaria di cui il comico fu vittima negli anni Sessanta, con una serie di arresti a catena per oscenità, vilipendio o possesso di stupefacenti, risulta essenziale. Per commentare e replicare alle accuse, spesso citando direttamente gli atti processuali, l’autore finisce infatti per sviscerare e svelare il suo metodo: non a caso, perché Lenny Bruce era un artista della parola, che per rivelare quanto falsa fosse la mentalità americana del suo tempo si affidava a una dissezione lucida e impietosa dell’uso delle parole, in particolare quelle proibite perché sconce o allusive di temi vietati. Nei suoi testi il turpiloquio non è mai fine a se stesso, d’altronde il profondo disprezzo per i facili effetti della comicità da trivio non glielo avrebbe concesso.

Una gabbia per la mente
Era convinto che il codice disciplinare semantico, la regolamentazione non codificata ma ferrea di quel che non poteva essere detto, o era consentito solo in alcuni ambiti e bandito in altri, costituisse una gabbia comportamentale, che inibiva la mente: tanto più negli Stati Uniti, dove il controllo sulle parole era sempre stato ferreo, tanto che negli stessi anni in cui Lenny scriveva la sua autobiografia la rivolta dei campus americani partiva da Berkeley proprio con la fondazione del Free Speech Movement, il Movimento per la libertà di parola. Lenny decontesualizzava e ricontestualizzava il suo lessico, sfruttava a man bassa gli slittamenti semantici per scardinare le gabbie del pensiero e sovvertirne le conseguenze comportamentali. Fu acclamato e lapidato non per quel che diceva ma per come lo diceva.
In vita ebbe un enorme successo ma fu anche una vittima eletta del perbenismo conservatore. Dopo la sua prematura scomparsa diventò una icona dei movimenti radical ma anche di quelli liberal e progressisti. Fa quindi una certa impressione, leggendo i suoi testi e riflettendo sul suo metodo, rendersi conto del fatto che oggi a prenderlo di mira non sarebbe più, com’era negli anni Sessanta, la destra. Le sue frecciate contro prelati e rabbini, il suo modo di mettere a nudo i pregiudizi razziali, il suo uso spiazzante delle allusioni esplicite all’eros verrebbero tacciati di sessismo, antisemitismo, razzismo, omofobia: a chiedere la testa di Lenny Bruce, oggi, sarebbe la sinistra liberal e politicamente corretta.