Un romanzo storico, costruito sulle vicende di due comunità contadine dell’Amiata, che abbraccia un secolo e mezzo di storia italiana, dal 1797 al 1944: è questo, in estrema sintesi, Domani (Manni editore, euro 22), scritto da Velio Abati, poeta, saggista, insegnante, per lungo tempo animatore della Fondazione Luciano Bianciardi di Grosseto.

Il titolo allude, marxianamente, all’uscita dalla preistoria in cui fino ad ora siamo vissuti, divisi e sofferenti, deprivati del futuro. Allegoria di questa condizione è la moltitudine dei «dannati della terra» protagonisti del romanzo. Con la loro volontà di riscatto sociale e le loro sconfitte, dalle lotte per la terra all’emigrazione in America, dalle guerre, in cui sono stati usati come carne da macello, alla lotta partigiana nella Resistenza.

Il romanzo è scandito attraverso quattro lunghi capitoli, La Forza dell’Ira, La Virtù, L’Allegrezza, La Sapienza, altrettanti movimenti musicali, ariose partiture di un crescendo che culmina al termine del romanzo in una presa di parola sempre più esplicita da parte dell’autore: «E’ vero, babbo, il pane non casca dal cielo. Raccolgo da voi l’orgoglio di nonno, scampato dall’oppressione degli ozi e dei saccheggi. Il coraggio semplice di chi, nel tempo lungo dei servi, sapeva d’avere solo in sé la forza, non si raccomandava a Franza o Spagna. Per questo sono con te, padre, quando eccedi, irridi e volti il culo al papa e al re».

Le opere e i giorni dell’epopea corale e individuale di Abati prendono forma nelle scene della scuoletta rurale di Nunziatina, nei conflitti con i ricchi proprietari Ildibrandi e Stracci, nella costituzione della cooperativa 1° Aprile, nella sconfitta contadina negli anni del fascismo, nella perdita degli usi civici, nel duro realismo delle descrizioni del lavoro agricolo (la macellazione della vacca, la raccolta del olive), della malaria, dei debiti, nella felicità delle feste e degli amori, nella figura vivida dello Storiaio che porta nelle case dei contadini un sacco pieno di storie, apologhi, almanacchi. «“Diteci, che ci portate di bello questa sera?” Si alzò lieto, come se non avesse aspettato altro. Andò a prendere il suo sacco, poi s’inginocchiò, sciolse con cura la corda e lo aprì delicatamente. “Prima di tutto, ho una primizia che vi lascerà a bocca aperta.” Indugiava a tirar fuori la sinistra, mentre con la destra teneva l’orlo appena socchiuso. “Non vi siete meravigliati, che quest’anno sono passato così presto?” La copertina verde, familiare del Barbanera che alla fine comparve dal sacco sorprese tutti… Si mise ora a leggere, ora a cantare, finché le donne non dovettero portare a letto i piccoli che piangevano e dormivano, finché al lume cominciò a mancare l’olio».

Dante, Manzoni, Verga, Pratolini, Bilenchi, lo scrittore mozambicano Mia Couto, Saramago del Manuale del convento e Fortini della poesia Il presente (nel Prologo) sono alcuni dei modelli che possiamo scorgere in filigrana nella scrittura di Abati. Una scrittura fatta di allusioni, ellissi, metafore che accompagnano i salti temporali e tematici che attraversano le vicende e che disegnano una comunità potente, viva, sanguigna, sofferente, fatta di uomini e donne con le loro storie e le loro individualità da cui emergono la fierezza e la dignità dei vinti. Una scrittura mai bozzettistica né populistica che alterna il linguaggio popolare dei contadini infarcito di toscanismi con quello storico di quando si parla della guerra di Libia o delle origini delle servitù feudali e delle affittanze collettive, fino alle aperture liriche con una forte componente evocativa di tante immagini della natura o ai termini tecnici per descrivere il ciclo dei lavori agricoli. «Il sole di fine luglio arroventava. Riverberava da ogni filo di stoppia. Stingeva le ombre. Però non ci si poteva scoprire, perché la paglia secca taglia come il vetro e la polvere del grano, che s’infiltra sotto i panni e asciuga la gola, brucia più dell’ortica… L’annata era stata buona, le spighe erano piene e granite».

Con Domani Velio Abati ci consegna un romanzo decisamente controcorrente, ispido e «faticoso», lirico ed epico, che richiede al lettore di dimenticare il narcisismo gastronomico di tanta narrativa nostrana per fare i conti con la contraddittoria, solare e cupa, esistenza umana e storica.