Il presidente della Repubblica è il grande rimosso della riforma costituzionale sulla quale voteremo domenica prossima, lo è da due punti di vista. Per un verso la sua figura è toccata marginalmente dalla riforma; per un altro il suo ruolo è ridimensionato nei fatti.
Con la riforma cambia il sistema di elezione del capo dello stato. Dai grandi elettori spariscono i delegati regionali, resta il parlamento in seduta comune. Nelle prime tre votazioni è richiesto ancora il voto dei due terzi degli aventi diritto, dal quarto scrutinio il quorum si abbassa ai 3/5, dal settimo si abbassa ancora ai 3/5 dei soli votanti. La differenza sta nella base di calcolo: oggi gli elettori del capo dello stato sono oltre mille, con la riforma saranno 730 (630 deputati e 100 senatori). Dal quarto scrutinio basteranno così 438 voti.

L’Italicum consegna al primo partito 340 deputati, sei eletti in Trentino Alto Adige e una quota importante di deputati esteri (sei o sette su dodici). Se stiamo parlando del Pd, oggi avrebbe tra i 50 e i 55 senatori. Dunque 410 grandi elettori, ai quali aggiungere i cinque senatori di nomina presidenziale. Non si arriva ai 438 richiesti dal quarto scrutinio, ma si potrebbe arrivare al quorum calcolato sui presenti, basta ritardare la scelta. D’altra parte i voti mancanti ai vincitori saranno così pochi – una ventina – che non sarà necessario un accordo politico, basterà un’intesa anche sottobanco con qualche transfuga. Il presidente della Repubblica, allora, resta una figura super partes solo formalmente, in concreto può diventare la diretta emanazione del solo primo partito.
Tanto più che quel partito non avrà bisogno di alleati per metterlo in stato d’accusa. L’articolo 90 della Costituzione non è toccato dalla riforma ma assume tutt’altro valore alla luce dei nuovi numeri e dell’Italicum. Per avviare la procedura di impeachment sarà ancora richiesta la maggioranza assoluta del parlamento in seduta comune, cioè 365 voti, che però saranno a disposizione del solo primo partito. I casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione sono rimaste eventualità remote anche perché presidiate da un quorum alto. Al contrario l’impeachment è spesso evocato nella polemica politica (Forza Italia imputa a Napolitano ben «cinque colpi di stato»). Con le nuove regole la minaccia diventa concreta e il presidente della Repubblica assai meno libero.

Libero non lo è per niente nell’esercizio di uno dei suoi principali poteri, l’affidamento dell’incarico di formare il governo. Nel ballottaggio dell’Italicum si elegge direttamente il «capo» del partito vincitore. Anche se la nuova legge elettorale recita ipocritamente che «restano ferme le prerogative spettanti al presidente della Repubblica», non ci sono dubbi che la sua scelta sarà obbligata.
Infine, anche con la riforma, il presidente della Repubblica potrà intervenire nella composizione del senato nominando cinque senatori tra i cittadini che hanno illustrato la patria. Con due differenze fondamentali. La prima è che questi cittadini «illustri» saranno probabilmente le persone giuste nel posto sbagliato. Perché il nuovo senato è disegnato per rappresentare non più «la nazione», ma «le istituzioni territoriali», si troveranno cioè con la strana compagnia di consiglieri regionali e sindaci. Più che al merito, il capo dello stato nel fare le sue nomine dovrà allora guardare alla provenienza geografica. Gli «illustri» senatori non saranno più a vita e resteranno in carica per sette anni, la stessa durata del mandato presidenziale. Da qui il rischio che possano muoversi come un mini partito del presidente (anche considerando che gli altri senatori impegnati nelle regioni e nei comuni saranno spesso assenti, i cinque potrebbero risultare decisivi).