L’amministrazione Usa è in un vicolo cieco. La strategia militare delineata dal suo capo in Medio Oriente è stata, in questi giorni, rigettata da buona parte del partito democratico americano, respinta dal “fedele” Parlamento britannico, elusa dall’Unione europea e infine recepita con accorata preoccupazione da Papa Francesco che ha immediatamente convocato a Roma una “mobilitazione” di preghiera e digiuno contro la guerra in Siria. Con Obama si sono schierate soltanto la Francia e la Lega araba (sebbene finora nessun paese arabo ha palesemente manifestato la propria intenzione di agire militarmente).
Ma non si tratta solo di isolamento politico. Ciò che al presidente Usa oggi manca è soprattutto la legittimazione giuridica per poter intervenire in Siria. Una legittimazione che nessun Congresso potrà mai fornirgli, perché il ripudio della guerra è parte integrante del diritto internazionale vigente. A ribadirlo con forza è stato lo stesso segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon richiamando l’amministrazione americana al rispetto dell’art. 51 della Carta dell’Onu. Questa disposizione vieta espressamente il ricorso all’uso della forza da parte degli Stati, prevedendo due sole eccezioni: la legittima difesa dal parte dello Stato aggredito e l’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza una volta accertata «l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione». Altri tipi di intervento, in assenza di tali presupposti, sarebbero illegali. E non si tratta di un artificio giuridico. Perché in questo modo il diritto internazionale vuole impedire che gli Stati possano a proprio piacimento assumere le più disparate cause di giustificazione per agire unilateralmente.
Ciò nonostante anche a ridosso della crisi siriana si è tentato da più parti di riproporre la stucchevole distinzione tra legalità e legittimità delle guerre. Un escamotage già sperimentato con successo in occasione del conflitto in Kosovo. L’asse argomentativo è noto: le azioni di guerra intraprese senza un mandato dell’Onu seppure illegali sarebbero però legittime se moralmente fondate e finalizzate ad assicurare la tutela dei diritti umani.
Ma il richiamo alla «validità morale» delle guerre e al primato dei diritti deve però ritenersi, sul piano giuridico, non solo debole, ma soprattutto fuorviante. Perché debole e fuorviante è la pretesa ad esso sottesa di risolvere la questione dei diritti umani impiegando uno strumento quanto mai improprio: la guerra. Il conflitto bellico non è il surrogato di una procedura giudiziaria, non assicura la vittoria a chi ha ragione, né tanto meno il suo fine è quello di assicurare la garanzia dei diritti. La sua dimensione naturale è la forza, il primato delle logiche militari, la violenza: «In guerra – scriveva negli anni trenta Hans Kelsen – non è vittorioso chi è nel giusto, ma il più forte».
Ma infischiandosene di Kelsen, di Ban Ki-moon e anche dei Papi, Usa e Francia hanno ormai deciso di fare la guerra. Le “ragioni” millantate le conosciamo. Sono sempre le stesse: l’emergenza umanitaria, le dittature, i diritti umani… Ed anche il mantra degli anni passati su Danzica, su Assad-Hitler, sui pacifisti imbelli è tornato più che mai a farsi vivo, invitandoci ancora una volta a schierarci.
Ma da quale parte? Dalla parte del regime criminale di Assad o dalla parte delle bande ribelli egemonizzate da Al Quaeda oggi più che mai desiderosa di un intervento militare in grado di travolgere l’odiato governo siriano?
Porsi su questo piano non ha senso: l’unica via praticabile per superare i conflitti è l’azione diplomatica. Fuori dalla soluzione politica non c’è soluzione. Così come fuori dal diritto non c’è il primato della morale, ma l’arbitrio. Lo abbiamo appreso dalla storia. Lo abbiamo imparato dall’art. 11 della nostra Costituzione.
Ad averlo questa volta compreso è stato però anche il Governo italiano e soprattutto il suo Ministro degli Esteri. Era quanto ci saremmo oltreoceano atteso pure da colui che è stato solennemente investito del premio Nobel per la pace.