Un tessuto sottile si srotola sotto i nostri occhi: In un posto bellissimo di Giorgia Cecere è un film non fatto solo di trama, ma anche di ordito che procedono insieme per comporre un disegno definitivo che si vedrà solo a conclusione. Occorre la pazienza e la creatività dello spettatore che si fa lui stesso tessitore. Lucia (Isabella Ragonese, già protagonista per Giorgia Cecere nel suo bell’esordio Il primo incarico realizzato dopo aver scritto film per Gianni Amelio e per Edoardo Winspeare) procede nella sua vita con estremo riserbo, appare come rassegnata alla routine, con un marito (Alessio Boni) che si fa subito notare come uno che organizza la vita di tutti, un figlio adolescente piuttosto sveglio, dall’humour un po’ surreale: un incipit che si svolge in macchina e che fotografa immediatamente il temperamento dei personaggi.
Niente di strano, siamo nella provincia piemontese, precisamente nell’astigiano, dove l’estroversione non è considerata il massimo della buona educazione, ma Lucia che diventa quasi subito il perno del racconto è assente, come lontana e senza emozioni, nello sguardo, nell’incedere, nell’affrontare le situazioni. Perfino un episodio che in qualche altro luogo d’Italia (nel sud ad esempio) sarebbe stato tramandato con notevole divertimento nel corso di pranzi familiari, il furto in riva al fiume dei pantaloni del marito in vena di bagnarsi, passa sotto silenzio. Ma ecco che lei riconosce gli stesi pantaloni indossati da un ambulante (Feysal Abbaoui) di fronte al suo negozio di fioraia, lo blocca, lo costringe a parlare (glieli ha passati un amico), lo segue fino in periferia sull’autobus con una tenacia inconsueta. Il paradossale avvenimento è la spia di un disagio che viene dal profondo, da qualcosa successa anni prima che un po’ alla volta si ricostruisce seguendo gli avvenimenti quotidiani, un incontro casuale al supermercato, un ricordo da rimuovere, una persona da rivedere, un dolore da temere e perfino un evidente tradimento coniugale.
Non sembrerebbe possibile all’inizio, ma il film racconta proprio un percorso di liberazione verso quel mitico «posto bellissimo», forse quel futuro che ognuno immagina di voler abitare, una condizione interiore da trovare. Nella stretta rete delle consuetudini non c’è posto per l’imprevisto, ma quando si presenta sotto forma di un elemento estraneo, di qualcuno che non fa parte del quadro previsto può provocare cambiamenti inaspettati: immaginiamo improvvisamente Lucia un po’ come gli europei addormentati, adagiati nelle loro abitudini che si trovano di fronte al grande cambiamento epocale. Lei reagisce con uno slancio inaspettato.
L’attualità in questo caso incide molto in profondità, e accompagna con piccoli spostamenti la trasformazione della protagonista, senza invadere troppo il campo. La regia lavora per sottrazione, non secondo i canoni tradizionali, ma sono tempi carichi di sottintesi che il pubblico saprà bene come riempire. Tanto da far ammettere a Isabella Ragonese che il personaggio di Lucia è come un luna park, per un’attrice.
La paura dello «straniero» che dilaga in Europa, in Piemonte era abituale con quella repulsione verso gli immigrati del sud fin dagli anni cinquanta, chiamati senza fare distinzioni «napoli», a cui era meglio non dare alloggio (ma il film potrebbe essere ambientato in qualunque provincia), diventa la chiave di volta per la trasformazione della protagonista che scopriamo essere più diretta e senza le tante sovrastrutture dei suoi familiari e conoscenti. Lei tratta fin dall’inizio il giovane egiziano come un essere umano, un amico, a volta un po’ invadente e da tenere a distanza, non come un corpo estraneo da respingere, con il quale instaurare una complicità non più ritrovata nella vita familiare. Comincia ad aprirsi così anche con la madre (Piera Degli Esposti) della amica d’infanzia morta in un incidente e che non aveva più avuto il coraggio di incontrare perché quella perdita l’aveva segnata pesantemente. Con l’istruttore di guida (Paolo Sassanelli) perché infine ha deciso di prendere la patente. Finché può nuovamente dirigersi verso il suo posto nel mondo.
«La prospettiva del film, dice Giorgia Cecere è guardare da dentro, ci siamo allontanati dai nostri sentimenti elementari come sono lo spavento, la paura, le angosce». Un percorso che va sempre più in profondità nell’intimità della protagonista, una parte femminile del film sviscerata e messa a nudo in maniera stupefacente (una parte femminile che è anche mia, sostiene il coautore della sceneggiatura Pierpaolo Pirone, «abbiamo raccontato un mondo che ci appartiene»). «Noi siamo tutti terrorizzati, aggiunge Cecere, perché siamo bombardati da un messaggio univoco: difenderci da ciò che cambia. Ma questo è impossibile a meno di non compiere strappi alla sensibilità e all’umanità. Bisogna invece andare a cercare con grande curiosità e apertura alla vita degli altri. Attraverso la vita di Lucia racconto quanto può essere stretto il sentiero che porta al di là delle barriere che non servono a nulla».