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Un poeta tardivo inseguito dal rasoio del proprio destino

Un poeta tardivo inseguito dal rasoio del proprio destinoPetr Konchalovskij, «Natura morta con pipa e candela», 1947

«Il mondo cercò di afferrarmi, ma non mi prese». L’epitaffio che il filosofo russo-ucraino del XVIII secolo Grigorij Skovoroda volle inciso sulla sua tomba sintetizza efficacemente anche la traiettoria esistenziale […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 21 maggio 2017

«Il mondo cercò di afferrarmi, ma non mi prese». L’epitaffio che il filosofo russo-ucraino del XVIII secolo Grigorij Skovoroda volle inciso sulla sua tomba sintetizza efficacemente anche la traiettoria esistenziale di Arsenij Tarkovskij che, non a caso, al suo connazionale dedicò più di un componimento. Una simile sfuggevolezza non è tuttavia da intendersi nel senso letterale di quella inquietudine che spinse Skovoroda a lasciare tutto e a trascorrere gli ultimi vent’anni di vita errando ramingo per le pianure dell’Ucraina. Nell’ottica di Tarkovskij inafferrabilità significa innanzitutto capacità di sottrarsi alle ingiunzioni del proprio tempo, nel tentativo insieme sommesso e ostinato di salvaguardiare la propria autonomia interiore.

Nato nel 1907 nella cittadina di Kropivnickij (che allora si chiamava Elizavetgrad) e scomparso a Mosca nel 1989, Tarkovskij passò gran parte della sua esistenza a eludere il malevolo controllo delle autorità sovietiche, dedicandosi all’attività ancillare della traduzione, conducendo vita appartata e scrivendo poesie «inattuali» che finivano invariabilmente in un cassetto. D’altra parte, sarebbe difficile immaginare un destino diverso per lui che a quattordici anni era già stato arrestato per un acrostico irriverente su Lenin e che nel 1946, in una recensione a uso interno delle Edizioni di Stato, veniva collocato in un famigerato «pantheon nero» della letteratura russa, in cui rientravano nomi come quelli di Anna Achmatova, Osip Mandel’stam e Nikolaj Gumilëv, autori la cui «nocività sociale» era direttamente proporzionale al talento.

Grazie al breve allentarsi della censura che coincise con il disgelo, Tarkovskij poté pubblicare infine la sua prima silloge, Neve imminente, nel 1962, debuttando a cinquantacinque anni contemporaneamente al figlio regista Andrej, che quello stesso anno vinse il Leone d’Oro a Venezia con il lungometraggio d’esordio L’infanzia di Ivan. Tuttavia il poeta aveva alle spalle una prassi più che trentennale di scrittura e di interrogazione dei misteri del cosmo che l’editore Giometti&Antonello illumina ora in modo esemplare con il raffinato volume Stelle tardive Versi e prose, a cura di Gario Zappi (pp. 230, euro 22,00 ). Partendo dalla ricerca di nitidezza e lucidità formale perseguita dagli acmeisti negli anni dieci, Tarkovskij la declina in una tonalità minore, satura di sommessa malinconia e di flemma adamantina, quasi il caos dissonante della Storia non potesse comunque avere la meglio sull’equilibrio ineffabile della poesia. L’armonia alla quale arrivano i suoi versi si fonda innanzitutto sul riconoscimento dei legami che riconnettono il tutto alle sue parti, ossia «ciò che per l’universo si squaderna», come disse Dante, poeta da lui amatissimo.

In questa ottica appare quasi superflua la dichiarazione: «Ma io credo nell’immortalità dell’anima», con cui si conclude la nota autobiografica pubblicata per la prima volta in calce al volume. La poesia di Tarkovskij è infatti costellata da una miriade di visioni di consunzione e di rinascita, da resurrezioni improvvise, collegate ai cicli della natura, che si compiono spesso nello spazio di una strofa o di un distico: «Non mi occorrono le date: io ero, e sono, e sarò. / La vita è la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia / solo, come orfano, pongo me stesso». Forse è proprio questa consapevolezza dell’alternanza tra presenza e assenza, vita e morte, luce e ombra a spingere Tarkovskij a guardare con distacco apparentemente sovrano al suo destino di poeta tardivo che, ammutolito dalla censura, con le sue traduzioni aveva prestato la propria voce a innumerevoli poeti georgiani, armeni, turkmeni, karakalpaki… «Sono colui che è vissuto nel proprio tempo / senza essere sé», ammise in un sonetto dedicato ad Anna Achmatova. E in veste di fine traduttore lo aveva conosciuto nell’autunno del 1940 a Mosca anche Marina Cvetaeva, che gli dedicò l’ultima poesia composta prima di morire suicida a Elabuga, esortandolo a continuare a scrivere in prima persona, «poiché per un altro poeta Lei può tutto».

Nei versi in memoria di Cvetaeva, Tarkovskij smarrisce di colpo la sua calma olimpica; la sua voce si incrina, come stupefatta dall’incommensurabilità di un simile distacco. Eppure il poeta non cederà a quel «richiamo di morte», così com’era riuscito a non soccombere a quei momenti in cui, – come scrisse in una lirica ripresa dal figlio nel film Lo specchio – «il destino ci seguiva passo a passo / come un pazzo col rasoio in mano».
Malgrado le tante perdite subite, compresa quella di Andrej, morto a Parigi nel 1986, la sua scrittura, sia in versi che in prosa, si nutrì fino all’ultimo di un profondo vitalismo, di un riflesso di quel sole che doveva averlo guidato dall’alba al tramonto, quando da ragazzo, sfuggito all’arresto, si era dato al vagabondaggio, per le strade dell’Ucraina. Un’esperienza che gli aveva scolpito dentro, come un viatico, l’insegnamento di Skovoroda cui si sarebbe attenuto sino alla fine, traendone speranza e salvezza:«l’uomo deve fare ciò che gli connaturato e non deve occuparsi d’altro».

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