Complessità e antagonismo sono le parole-chiave per intendere, fra gli anni cinquanta e settanta del secolo scorso, figure individuali o gruppi politici e intellettuali che abbiano tentato sia di comprendere sia di sottoporre a critica radicale il neocapitalismo italiano e perciò, per quanto paradossale possa sembrare, di civilizzarlo. Fra costoro, di singolarissima fisionomia e di particolare vivacità, è stata la figura di Francesco Leonetti, morto domenica scorsa a Milano in una casa di riposo dove da tempo era ricoverato.

SCRITTORE DI PARTITURE plurali, polifoniche, e militante della sinistra comunista (le due cose per lui non erano affatto separabili), Leonetti nasce a Cosenza nel ’24 in una famiglia borghese. Suo padre è magistrato, poi attivo nei processi di epurazione nello stesso momento in cui il figlio è costretto a curare una sordità sopravvenuta per lo scoppio di una bomba mentre, da coscritto dell’esercito di Salò, scavava una trincea dalle parti di Cassino. Gli rimarrà una ripulsa fisica per il fascismo nonché una inquietudine che gli indurrà in un primo tempo problemi di comunicazione e la scelta del mestiere di bibliotecario, fra l’altro nella prestigiosa «Malatestiana» di Cesena.

Il suo dopoguerra a Bologna è comunque fervido di riferimenti: al Caffè Zanarini, in piazza Galvani, può incontrare Roberto Longhi, il grande storico dell’arte, e Galvano della Volpe, filosofo materialista, un anti-Croce il cui lascito di estetica è scritto nella Critica del gusto, mentre è fuori dalle aule dell’università che ritrova fra il ’55 e il ‘59 due compagni del liceo Galvani, Roberto Roversi e Pier Paolo Pasolini, con i quali fonda la rivista Officina, alla cui redazione presto si aggiungono Gianni Scalia, Franco Fortini e un finissimo italianista quale Angelo Romanò.
Il programma della rivista punta sia a un bilancio del secolo sia a un rinnovamento della letteratura corrente opponendosi da un lato al Grande Stile (l’ermetismo, cioè il tardo simbolismo italiano) dall’altro a un neorealismo troppo spesso cedevole al populismo e alla propaganda edificante. Pasolini, in Poesia in forma di rosa, così ritrae l’amico: «Ma la formica laboriosa ha il buco/ dove se ne sta sola, e canta/ come la cicala. Questa la/ sua vita, ma è vita/ sua, nera».

È la nerezza medesima di un immaginario nutrito dal pensiero-poesia degli outsider meridionali (Bruno, Campanella, Bernardino Telesio) che fermenta nei versi scanditi e scoscesi, volentieri gnomici, de La cantica (Mondadori, 1959) ma anche nella prose autobiografiche di Fumo, fuoco e dispetto (Einaudi, 1956, voluto da Elio Vittorini nella collana «I Gettoni») e nel bellissimo romanzo di formazione che chiude i conti con Bologna e si intitola Conoscenza per errore (Feltrinelli, 1961).

IL NOME DI VITTORINI corrisponde per Leonetti a una autentica svolta. Vittorini dell’inquietudine politica e dello spirito di ricerca intellettuale è forse il massimo testimone della seconda metà del secolo e dunque trova nel più giovane scrittore (che per lui si trasferisce a Milano, sui Navigli) tanto una sponda quanto un fervido maieuta di iniziative culturali e politiche, specie per la rivista Gulliver, pensata in termini internazionali e plurilingui che purtroppo non vedrà mai la luce, nonostante l’adesione di Günter Grass, Maurice Blanchot, Hans Magnus Enzesberger e altri di simile rango. Ma Milano è il luogo di giuntura fra il nativo sperimentalismo e l’adesione alla neoavanguardia di Edoardo Sanguineti e dell’amico Elio Pagliarani, è il luogo del sodalizio con lo scultore Arnaldo Pomodoro (cui dedicherà il Libro per le sculture di Arnaldo Pomodoro, Mazzotta, 1974) e di altri compagni di via (su tutti Paolo Volponi, Umberto Eco, Nanni Balestrini, Antonio Porta) con i quali fonda la rivista Alfabeta. E Milano è anche il luogo quotidiano di un ritrovato insegnamento, Estetica alla accademia di Brera, e di un sempre più intenso impegno politico, nei pieni anni settanta, tra i gruppi di militanti marxisti-leninisti cui Leonetti adduce la nativa irrequietezza di scrittore e l’impegno condiviso con sua moglie Eleonora Fiorani, studiosa del materialismo e autrice del notevole Fiedrich Engels e il materialismo dialettico (Feltrinelli, 1971).

SONO QUESTI GLI ANNI apicali di un autore che accede al senso comune della nuova sinistra con alcuni libri che di quella stagione sanno esprimere l’immaginario utopico e l’inventiva sbrigliata con andatura ora da apologo filosofico ora invece da racconto picaresco, L’incompleto (Garzanti, 1964), Il tappeto volante (Mondadori, 1967) e il piccolo capolavoro Irati e sereni (Feltrinelli, 1974) nel cui titolo davvero pulsa lo spirito dei tempi.
Quando Einaudi decide di pubblicare l’opera omnia di Leonetti (le prime uscite sono due raccolte poetiche, Percorso logico del 1960-75 e In uno scacco, 1978) è già segnato il principio della fine per il tempo della complessità e dell’antagonismo perché intanto si sta inaugurando ciò che fu detto riflusso ma significa ripiegamento, clausura intellettuale e smaccata reazione politica. E infatti Campo di battaglia (Einaudi, 1981) rappresenta per lui quasi un testamento predatato essendo un romanzo di degenza e malattia, un presagio di difficile, dolorosissima sopravvivenza.
Negli anni ottanta lo scrittore si defila per un periodo di ripensamento, quasi un processo di metabolizzazione della sua lunga vicenda letteraria e politica. Il progressivo affermarsi di un Pensiero Unico che sceglie la letteratura evasiva, acritica, nonché la produzione di genere e di intrattenimento, cui si sommano la de-politicizzazione generalizzata e l’idea che il nostro mondo sia immodificabile, ne fanno ormai un refrattario alla grande editoria. Affida i suoi versi, sempre più scarni e gnomici, si direbbe leopardianamente disperati, alla piccola editoria di qualità aristocratica, come Scheiwiller di Milano o Manni di Lecce, per esempio Palla di filo (1986) o Le scritte sconfinate (1994) cui si aggiunge la raccolta complessiva Sopra una perduta estate. Poesie scelte 1942-2001 (No reply editore, 2008).

IL SUO ULTIMO TEMPO è dedicato a un bilancio critico e autocritico, come attestano il dialogo con Paolo Volponi Il leone e la volpe (Einaudi, 1995), il bel documentario di Marina Spada, Lo scrittore a sette code (2015) ma prima ancora la tranche autobiografica La voce del corvo. Una vita (1940-2001), a cura di Veronica Piraccini (DeriveApprodi, 2001). Quest’ultimo titolo, ovviamente, si riferisce a Uccellacci e uccellini (’66), il film-apologo di Pasolini dove Leonetti non compare ma presta la sua voce al corvo socratico, soccorrevole e incalzante, che accompagna i due pìcari Totò e Ninetto Davoli lungo il viaggio iniziatico che li inoltra nel neocapitalismo italiano.
Si è detto che, nella sua implacabilità, il corvo farebbe pensare a Franco Fortini ma quando si presenta a Totò, prima di essere spennato e sacrificato ritualmente, è proprio a Francesco Leonetti che viene da pensare: Io vengo da lontano… il mio paese si chiama ideologia… vivo nella capitale città del futuro … in via Carlo Marx 70 volte 7… Con tutta la sua furia inventiva, con il perpetuo dibattito sulla propria posizione e sui destini generali, Leonetti non era affatto un dottrinario: per lui «ideologia» non era falsa coscienza ma, come voleva il suo grande amico, era piuttosto un corrispettivo della «passione», la passione di essere al mondo, per testimoniarlo e insieme trasformarlo.