Visioni

Un pianoforte stralunato per nuove sonorità jazz

Un pianoforte stralunato per nuove sonorità jazzRubalcaba in concerto a Milano – Stefano Parisi

Musica Le invenzioni di Rubalcaba con i Volcan, nel cartellone della rassegna milanese Il ritno e la città. Al Blue Note, invece, Danilo Perez con una punta persino pop, e l'omaggio al Sol Levante di Ibrahim col trio

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 16 luglio 2015

Nel giro di qualche giorno, a Milano, tre pianisti che riconciliano con uno strumento che va per la maggiore, ma che troppo spesso oggi sembra reso schiavo di mode ed espedienti. Un maestro come Abdullah Ibrahim, emerso nel jazz sudafricano degli anni cinquanta, e due pianisti latini, Gonzalo Rubalcaba e Danilo Perez, della generazione nata in quegli anni sessanta in cui Ibrahim si affacciò, mostrando una personalità e un’originalità di tutto rilievo, sulla scena del jazz americano in cui più tardi si sarebbero fatti onore anche Rubalcaba e Perez.

 

Rubalcaba si è lasciato alle spalle quell’esuberante virtuosismo che del pianismo jazz cubano è un marchio di fabbrica e una delle eccellenze, ma che può diventare anche una prigione. Il suo approccio è oggi piuttosto asciutto ed essenziale, anche con il gruppo che condivide con il bassista Armando Gola, il batterista Horacio El Negro Hernandez e il percussionista Giovanni Hidalgo, cubani pure loro i primi due, portoricano di nascita e fra i massimi specialisti negli Stati Uniti delle percussioni latine l’ultimo: il quartetto con cui si è presentato all’Orto botanico nell’ambito della rassegna «Il ritmo delle città», formazione che col nome che porta, Volcan, farebbe pensare a qualcosa di decisamente più eruttivo.

 

Nel latin jazz che propone con i suoi partner, Rubalcaba non si fa invece mai prendere la mano, e tende anzi a creare delle situazioni suggestivamente sospese. Fondamentalmente al piano acustico, Rubalcaba usa qua e là le tastiere per un riff, per un tocco di colore, per incorniciare un brano. Hernandez è un batterista che sa essere potente ma capace di suonare in maniera estremamente calibrata e fine; Hidalgo è un conguero fantastico: veloce, morbido, con un senso ritmico impeccabile e un gusto timbrico sopraffino. Il loro tandem è perfetto e nell’insieme il gruppo è magnificamente egualitario fra piano e ritmica, con un bel equilibrio sia musicale che sonoro, e con il contegno e la disciplina che sono la chiave della grande musica latina. Originale un Salt Peanuts con suoni elettronici sottili e percussioni e batteria mobili, liquidi. E come secondo bis un delizioso El Manisero, uno straclassico della musica cubana ma che riesce come nuovo in una illustrazione scarna, minimalista, poetica, stralunata.

 

Al Blue Note Danilo Perez, John Patitucci al basso e Brian Blade alla batteria hanno l’aria di divertirsi un mondo. Nella veste dei tre quarti del gruppo regolare di Wayne Shorter, nell’arco di alcuni lustri si sono abituati a fronteggiare al volo qualsiasi frangente determinato dalla indomita creatività e non convenzionalità del sassofonista: con l’affiatamento che hanno acquisito, in trio possono spassarsela in un interplay in cui ciascuno di loro introduce gustosi elementi di imprevedibilità. Parco di note, Perez è spesso anche cantabile, con una punta persino pop, ma mai in modo corrivo, sempre con nerbo e con sostanzioso senso della sintesi; anche il suono è molto disciplinato, senza mai ostentazione di brillantezza; e di tanto in tanto pare di avvertire echi di novecento classico, mentre sono rari accenti chiaramente latini. Patitucci ha una forte inclinazione melodica, ed è un gioioso collante. Blade è un batterista che inventa continuamente figure, soluzioni diverse, in maniera sottile. Giocosi ma con classe, lirici ma con pudore.

 

Pure al Blue Note l’Abdullah Ibrahim Mukashi Trio, con Cleave Guyton, flauto e clarinetto, e Noah Jackson, violoncello e contrabbasso, entrambi afroamericani. Un trio che lo è solo a tratti, perché per lo più mentre Ibrahim suona i due partner tacciono, e viceversa. Il progetto è destinato a rendere omaggio al Giappone, ma le parti melodiche e un po’ ingessate che Guyton e Jackson eseguono aderendo alle loro partiture, senza spazio per l’improvvisazione, non paiono particolarmente connotate. Se l’idea di Ibrahim è di esprimere il suo amore per il Sol Levante, il bello è però nella propensione innodica e nella solennità del suo pianismo, così sudafricane, e assieme nella profonda immedesimazione del suo piano nel carattere del jazz, in cui i sudafricani sono stati capaci di essere anche così americani.

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