Un pianoforte per i giusti è il nuovo disco di Gaetano Liguori, jazzman milanese, sulla scena da circa mezzo secolo e da sempre impegnato con la musica in chiave sociopolitica, fin dall’album d’esordio Cile libero Cile rosso: nato dalla collaborazione con Gariwo, il Giardino dei Giusti, l’album è un manifesto contro le ingiustizie sociali, dedicato e a tutti coloro che, nei momenti difficili non si sono voluti allontanare dai principi etici universali di pace, fratellanza, giustizia.

Chi sono per te i cosiddetti Giusti e come si legano al tuo discorso musicale? 

Semplicemente sono quelli che hanno salvato la dignità umana in tempi oscuri arricchendo il mondo di bellezza, come tutte le espressioni artistiche, in particolare la musica.

Ogni brano del tuo disco racconta intensamente una storia, magari vissuta in prima persona: a quale pezzo sei più affezionato

Forse la Suite della Resistenza… questa parola, «resistenza», che in certi momenti viene data per scontata deve essere sempre più che presente alle nostre coscienze di uomini e di cittadini, nella Suite della Resistenza ho inserito «Bella Ciao», che è senz’altro la canzone simbolo della lotta partigiana. Ho continuato la suite con El quinto Regimiento brano che ci ricorda un’altra Resistenza formidabile che fu quella al fascismo di Francisco Franco da parte della Repubblica spagnola e delle Brigate Volontarie Internazionali, segue un piccolo omaggio a un personaggio-chiave che incarna la parola Resistenza: Ernesto Che Guevara, per finire la mia suite con un canto di libertà che ancora adesso mi fa venire la pelle d’oca: El pueblo unido jamás serà vencido.

Ci sono poi dei titoli che vanno spiegati. Che cosa c’è ad esempio a cento passi dal Duomo di Milano?

A cento passi dal Duomo l’ho composto per due spettacoli che trattavano lo stesso tema: quello della lotta alle mafie, il primo faceva parte di un reading fatto con Daniele Biacchessi dedicato a Peppino Impastato, il giovane eroe ucciso dalla mafia a Cinisi , l’ordine di eliminarlo fu dato dal Mafioso Tano Badalamenti a cento passi da casa sua. Un altro spettacolo che invece ho allestito con Gianni Barbacetto e Giulio Cavalli era proprio sulle infiltrazioni della mafia, camorra e ‘ndrangheta a Milano e il titolo giocava sul fatto che a cento passi dal Duomo erano stati arrestati dei boss dell’’ndrangheta, che gestivano degli storici bar meneghini frequentati da molti assessori e consiglieri comunali.

Chi sono i ragazzi di Suruc del terzo pezzo? 

Sono trentatré ragazzi turchi, curdi e siriani che poco tempo fa, durante la guerra in Siria volevano passare il confine turco per ricostruire la biblioteca di Kobane, unica loro colpa salvare i libri e quello che rappresentano. Un giovane come loro, ma dell’Isis, si fece saltare provocando la strage e mi colpì molto una fotografia scattata pochi minuti prima dell’esplosione, dove delle facce di giovani, uguali da tutte le parti del mondo, trasmettono dal loro sguardo una coraggiosa voglia di non lasciare andare le cose ma di affermare il diritto alla pace.

Il Comandante è un brano autobiografico perché è anche il tuo soprannome. Come nasce questa leggenda?

Probabilmente nasce dai tempi dei miei viaggi nel Nicaragua sandinista della fine degli anni Ottanta, per i giovani nicaraguensi il Comandante era un capo non per grado militare ma per la facoltà di farsi ascoltare dagli altri una specie di «primus inter parents», e io me lo sono guadagnato sul campo («musicale», con coerenza e stile)…

Chi è invece il Max di cui si parla nel nono brano? 

È un brano a cui sono particolarmente affezionato perché lo composi per Max, Massimo Urbani, un giovane sassofonista con il quale abbiamo condiviso i concerti di esordio come quello di Verona, nel luglio 1973, concerto in cui suonammo prima di Miles Davis. Su Massimo è stato detto tutto, forse anche troppo, aumentando la falsa leggenda che lega jazzisti alla droga e l’alcol e che spesso questi sono elementi che aumentano la creatività musicale , niente di più falso. Massimo suonava in quel modo geniale perché era un talento di razza pura, e questo fu forse una delle ragioni che lo portarono su sentieri di morte.

C’è anche una «Tarantella di Geronimo»: Tarantella per ricordare le tue radici partenopee e Geronimo perché tu sei sempre dalla parte dei pellerossa e degli oppressi, giusto?

La Tarantella è un mio brano originale datato 1974 che volli scrivere per ricordare le mie origini partenopee, Geronimo Boogie fu invece un brano del 1978 che scrissi per l’eroico capo degli Apaches. Che, per continuare nella mia passione per il cinema western, ho incontrato in decine di pellicole e che per me, come Spartacus faceva parte di quella tipologia di persone che non si sono mai allineate al potere.

L’album termina con due ‘classici’…

Scegliere Mozart e Jimi Hendrix, musicisti che possono sembrare così lontani ma che in verità sono uniti da un comune denominatore: il genio, mi è sembrato più che naturale. Di Mozart ho scelto dal Don Giovanni «Là ci darem la mano», ma non ho voluto insistere sulla melodicità del brano, anzi dopo una citazione tematica, sono ricorso all’improvvisazione free jazz, quella di Cecil Taylor. Di Hendrix, eroe dei miei trascorsi di ascoltatore rock, ho scelto Hey Joe, che per sua natura si prestava a un’improvvisazione che ricorda la matrice delle origini del jazz: il blues.

A livello musicale, sei ormai rimasto l’unico, almeno in Italia a fare il jazz politico. Ma dove sono finiti i compagnucci della prima ora?
Io proseguo per la mia strada, ho sempre creduto che la musica potesse dare un significato a molte esistenze e che non fosse solo un mezzo di ricreazione, ma che potesse smuovere i neuroni e le coscienze, troppo spesso assuefatte all’ordine costituito. Io dormo bene e in piena coscienza posso affermare che la mia generazione ha compiuto molti errori, ma ha anche cambiato molti modi di intendere i rapporti personali e con il potere. Anche musicalmente la coerenza paga, basta vedere come sono lunghe e inimitabili le carriere di due tra i miei maggiori ispiratori McCoy Tyner e Cecil Taylor.