Voci tutt’altro che disinteressate declamano da un quarto di secolo il refrain della fine delle ideologie. Sono le stesse voci interessate a che una sola ideologia si affermi, quella privatista (refrattaria come poche alle smentite dell’esperienza).

Durante la Seconda repubblica a questa ideologia si sono ispirati tutti i vari provvedimenti sul lavoro – o jobs act –, come li ha ribattezzati una classe politica sempre più subalterna, anche linguisticamente, alle centrali dell’ideologia unica. Dal «pacchetto Treu» al nuovo progetto di Renzi (per quel poco che ne è trapelato), passando attraverso la legge Biagi e altri singoli provvedimenti varati da governi di diversi colori, le misure sul lavoro adottate negli ultimi vent’anni risultano tutte ispirate a una medesima filosofia di fondo, quella del profitto come variabile indipendente. A quest’ultimo, secondo tale visione, andrebbe subordinato ogni altro «fattore produttivo» – un concetto anch’esso ideologico e nient’affatto tecnico, volto com’è a equiparare capitale e lavoro. I problemi della mancanza di lavoro e della «crescita», in quest’ottica, andrebbero risolti attraverso una maggiore libertà di manovra per il capitale, a scapito del benessere dei lavoratori e delle loro tutele. Riducendo il carico fiscale sui redditi da capitale e diminuendo il potere contrattuale dei lavoratori – si è detto -, il sistema sarà libero di dispiegare le proprie potenzialità, fioccheranno investimenti e la disoccupazione sarà riassorbita.

La strumentazione al servizio di questo disegno ideologico è stata duplice: da un lato, l’assottigliamento delle garanzie per i lavoratori; dall’altro, l’allentamento dei vincoli sul capitale e lo stanziamento di una massa ingente di «incentivi» alle imprese. Questa manovra, nell’ambito di un sistema fiscale già di per sé disastrato e sperequato, è stata pagata dalla gran parte dei contribuenti: il lavoro ha perso capacità contrattuale e potere d’acquisto, proprio mentre si faceva carico quasi per intero dell’aumento della tassazione diretta e indiretta. L’industria privata ha raggiunto così un costo elevatissimo per la collettività. Con i soldi spesi in incentivi e detrazioni, lo Stato avrebbe potuto creare direttamente posti di lavoro più garantiti, meglio retribuiti e più razionalmente collocati in settori strategici. Negli ultimi anni di crisi la rinuncia a una conseguente politica programmatrice ha lasciato il posto a uno «statalismo asimmetrico», liberista quando si è trattato di smantellare i diritti del lavoro, ma protettore del capitale e dei gruppi dominanti quando sono emerse le inefficienze e le incapacità del sistema privato.

Prescindendo dalla incostituzionalità delle politiche sin qui richiamate, non vanno sottaciuti i risultati fallimentari da esse prodotti. L’idea, largamente diffusa da molti anni, che minori tutele per il lavoro comportino più occupazione si è rivelata falsa. È empiricamente dimostrato che non esiste alcuna correlazione fra occupazione e livello di protezione normativa dei lavoratori. Tra il 1997 (anno di approvazione del pacchetto Treu) e oggi le ore lavorate per occupato si sono ridotte, ed è cresciuta la quota di lavoratori part-time e a tempo determinato. Dal 2009, inoltre, lo stesso tasso di disoccupazione diffuso dall’Istat è in aumento, e secondo le previsioni dell’Ilo aumenterà ancora fino al 2016 arrivando a sfiorare il 13%. Senza contare che il tasso di disoccupazione non esaurisce tutte le forme di mancanza di lavoro: si pensi alle schiere crescenti di lavoratori poveri, sottoccupati o «scoraggiati», cioè disponibili a lavorare ma che hanno cessato di cercare un impiego. La sottoccupazione e la disoccupazione elevate hanno agevolato la stagnazione dei salari reali, favorendo essenzialmente la crescita delle rendite. Tale redistribuzione dura in realtà da più di trent’anni, periodo in cui la quota dei salari sul reddito è scesa, riducendosi di quasi 12 punti percentuali fra il 1980 e il 2010. I salari sono cresciuti meno della produttività, provocando una costante caduta della domanda complessiva, compensata, a mo’ di contrappeso, da una crescita smisurata dei debiti privati e degli strumenti finanziari.

Nonostante il fallimento delle ricette neoliberiste, divenuto palese in seguito alla crisi degli ultimi anni, si trovano ancora parecchi studiosi e politici pronti a sostenere la necessità di una minore rigidità normativa sul lavoro. L’allestimento di un coerente “piano del lavoro”, in grado di ripensare tempi e forme dell’occupazione, andrebbe oggi incontro a forti resistenze da parte dei gruppi dirigenti, interessati al mantenimento dello status quo nelle relazioni industriali e nella distribuzione del reddito e dei carichi fiscali. Eppure solo un lavoro più equamente retribuito, meglio garantito e allocato in settori a maggior tasso di innovazione sarebbe garanzia di crescita e sviluppo per l’intera collettività.

Tutto ciò comporterebbe un mutamento di rotta nelle politiche del lavoro, che non dipenderà dal semplice esito della tenzone tra “tecnici” di diverse accademie – quella neoliberista e quella “neokeynesiana”. Sarà piuttosto il prodotto di un mutamento nel quadro politico, il quale implichi l’individuazione di interessi materiali da colpire e di altri da elevare. Una svolta, in altri termini, coinciderà con l’adozione di scelte nette di natura politica, dalle quali dipenderanno gran parte delle possibilità di rilancio per la sinistra nel nostro Paese.