Quasi 24 anni dopo la caduta del Muro di Berlino esistono di nuovo due Germanie. La guerra fredda e la divisione in blocchi est-ovest non c’entrano più niente, per fortuna. A fronteggiarsi oggi sono il Paese in cui «tutto va bene», quello che esiste nella «narrazione» del governo democristiano-liberale guidato da Angela Merkel, e il Paese dove cresce invece la sofferenza sociale.

La «verità ufficiale» dell’esecutivo di Berlino è quella che si propaga, attraverso gli obbedienti funzionari di Bruxelles, nel resto d’Europa: cifre-record dell’occupazione, solo il 7,3% di persone senza lavoro e il livello minore di disoccupazione giovanile di tutta l’Ue. Un «miracolo» reso possibile, ovviamente, dalle «riforme» del mercato del lavoro (risalenti al socialdemocratico Gerhard Schröder), dalla moderazione salariale e dalla «disciplina nella spesa pubblica». Basterebbe che tutti gli stati del continente facessero come la Germania, et voilà la crisi sarebbe risolta: questo è il Merkel-pensiero.

Il Paese che descrivono i sindacati tedeschi, invece, è molto diverso. Il lavoro precario è in aumento, quasi un quarto degli occupati percepisce salari molto bassi (meno di 7 euro l’ora) e si allarga l’area della popolazione a rischio-povertà. Le diseguaglianze sociali stanno crescendo a vista d’occhio: il decimo più ricco dei tedeschi possiede oltre la metà dell’intera ricchezza della Repubblica federale. È questa «verità alternativa» che la confederazione sindacale unitaria Dgb (Deutsche Gewerkschaftsbund) vuole diffondere oggi nelle tradizionali manifestazioni del Primo Maggio – la principale delle quali si svolge a Monaco di Baviera, con il comizio del segretario generale Michael Sommer. Oltre a vedere un’altra Germania, il sindacato tedesco si accorge della sofferenza dell’Europa. Mentre la cancelliera Merkel esalta l’occupazione-record dei giovani in patria, la Dgb punta l’indice contro l’intollerabile cifra dei giovani senza un impiego nel resto dell’Ue (oltre il 50% in Grecia e Spagna, il 38% in Italia). E insiste sulla necessità di cambiare le politiche comunitarie per favorire la nascita di una «Europa sociale». Contro la crisi – afferma la confederazione – non serve l’austerità gradita a Berlino, ma «un Piano Marshall di investimenti per la crescita e la modernizzazione del continente», in una chiave ecologicamente sostenibile. E perché l’Europa esca dalla crisi occorre anche che l’economia della Germania si orienti meno all’export e torni a produrre per il mercato interno, riequilibrando la propria bilancia commerciale. Tradotto: i lavoratori tedeschi devono aumentare il loro potere d’acquisto, dopo anni di salari stagnanti. Se sale la domanda interna della Repubblica federale, a trarne beneficio saranno le economie dell’intera Europa.

Rivestono grande importanza, dunque, le vertenze che vedono impegnate le singole federazioni sindacali tedesche, a partire da quella dei metalmeccanici: per la Ig-Metall oggi è anche il primo giorno di lotta per il rinnovo del contratto nazionale. L’organizzazione padronale offre un aumento del 2,3%: una proposta «assolutamente irricevibile» per il sindacato, che rivendica buste paga più pesanti del 5,5%. Dopo il nulla di fatto della prima fase di trattative (in cui è vietato scioperare), ora è il momento di un ciclo di «scioperi di avvertimento (“Warnstreiks”)»: operai e impiegati si asterranno dal lavoro, ma senza poterlo fare ancora per l’intera giornata – secondo le rigide disposizioni del diritto sindacale tedesco. La lotta, comunque, è cominciata.