Nello scorrere il Piano Scuole Estate ci si chiede su quali dati rilevati sia stato costruito. Due soli i riferimenti bibliografici a supporto della proposta del piano e suggeriti per approfondire: un libro e un link.

Entrambi riferiscono studi, dati, esperienze delle scuole della sola Emilia Romagna relativi all’anno scolastico 2019-2020, quando il tema era tornare a scuola in sicurezza, garantendo la distanza e la sanificazione degli ambienti.

Oggi, a maggio 2021, i ragazzi e le ragazze, dopo un altro anno della loro vita consumato dalla pandemia, non sono gli stessi di maggio 2020. Ma al Ministero pare non lo sappiano. I dati che Save the Children da mesi condivide sono spietati. All’iniziale gap strutturale che generava differenze per mancate connessioni o disponibilità di dispositivi, si aggiunge una inerme insofferenza e paura verso il ritorno a una piena socialità che sta rodendo la salute fisica e psichica dei giovani.

La casa percepita come tana lo scorso anno è diventata rifugio. E anche quando è gabbia per un malessere tipico dell’età a condividere gli spazi con genitori e fratelli, si fatica a pensare l’allontanamento da essa.

Il numero di adolescenti con disturbi alimentari è in crescita. E, in risposta, il Piano Estate nella organizzazione e distribuzione dei fondi e delle attività, assume a modello ciò che nella scuola non ha funzionato come leva per rinnovarla e cambiarla: i Pon (Programma operativo nazionale).
Il piano, immaginato in tre fasi, ha una parola chiave, illuminante, con la quale si indica la Fase 2: normalità. Si legge: “Favorire l’avvio di un percorso finalizzato al ripristino della normalità, consentendo a studentesse e studenti di riprendere contatti con la realtà educativa e al contempo rafforzare le competenze relazionali”. Dunque riportarli alla “normalità della scuola”.

E a esplicitarlo è la grafica che sintetizza le 3 fasi. Fase1: la lampadina; Fase 2: la terra; Fase 3: la scuola, disegnata però come una casa. Un piano educativo per il Paese che investa nella scuola e che abbia al centro i ragazzi e le ragazze, dovrebbe fare esattamente il contrario. Fase 1: ti vengo a cercare laddove la pandemia ti ha costretto per 2 anni; Fase 2: ti accompagno alla scoperta del mondo; Fase 3: permetto alla tua creatività di fare luce e splendere.

Il Piano così come è sancisce la fine di una scuola che apre al futuro, che ha fatto tesoro delle diseguaglianze culturali, educative e sociali che la pandemia ha solo permesso di vedere di più, una scuola che con il territorio costruisce insieme percorsi educativi di resilienza. Infine: l’indicazione che accompagna il Piano è la “base volontaria”. Le scuole che vogliono possono presentare le proposte. I docenti possono dare o meno la loro disponibilità, le famiglie possono su base volontaria accettare o meno di far partecipare i propri figli alle proposte. Un modo ulteriore per creare disparità educativa, rimarcare il solco tra nord e sud del Paese.

Anche perché se il gap da recuperare è quello degli apprendimenti, il rafforzamento o è per tutti o per nessuno. C’è poi un’idea raffazzonata di recupero della dimensione relazionale e sociale: musica, sport, teatro a luglio e agosto. A settembre finisce tutto. Si torna a scuola a fare quello che si è sempre fatto: in DiD, DaD, presenza o su base volontaria, non importa.

La musica, lo sport, la danza, il teatro sono elementi di svago, non l’investimento del Paese sulla dimensione educativa. Sono quello che la scuola offre, se può, se ha i fondi, se sa farlo, se vuole farlo, se ha le strutture o le ha a disposizione nel territorio (I patti educativi di comunità: il Ministero ha fatto un censimento su quanti Comuni ne sono privi primi di proporli come una interazione necessaria dei Pon Estate delle scuole?). Come se tutto questo non sia e non debba essere parte integrante della scuola. Il Piano è irricevibile. Non farlo partire è la più grande occasione che dirigenti, docenti e famiglie hanno per dire che ai ragazzi e alla scuola ci tengono.

 

*Drettrice edizioni Meridiana