La fratellanza non è un fatto di sangue, o almeno non solo. Ciò che rende fratelli è la condivisione di esperienze, spazi e affetti concentrati negli anni più formativi della nostra esistenza. Quando i destini dei fratelli si separano per seguire strade, luoghi e mestieri diversi, quell’humus comune diventa un collante che, nei casi migliori, permette di sospendere il giudizio su stili di vita distanti, una o un cognato poco simpatici, gusti opposti. Nei casi peggiori quel collante d’origine non basta e allora avvengono separazioni dovute, quasi sempre, a questioni di soldi. Fra i casi che conosco di fratelli serpenti c’è quello di una signora che, dopo la morte dei genitori, ha deciso con quattro dei cinque fratelli di liquidare economicamente «La stronza», come chiamano l’unica sorella venuta male perché attaccata alla roba come una patella, per non vederla mai più.

Io di fratelli ne ho tre e sono certa che, anche se avessimo mezza Italia da spartirci, una cosa così non succederebbe. Non è che siamo più ganzi degli altri, ma una serie di eventi, e un particolare preciso, hanno reso il nostro collante indistruttibile. La musica. Prima di raccontare come io, Pietro, Augusto e Saverio siamo arrivati a diplomarci rispettivamente in pianoforte, viola, oboe e corno, anche se poi non tutti abbiamo continuato a lavorare con le note, bisogna fare una premessa sui nostri genitori, Giacomino e Luciana, e sul luogo e il periodo in cui tutto quanto è avvenuto.

Nostro padre era nato fra le due guerre, faceva l’operaio, era figlio di contadini, aveva avuto un’infanzia da bestia, perso la madre a nove anni e smesso la scuola subito dopo, per cui era rimasto semi analfabeta. Nostra madre era pure lei figlia di contadini, faceva la sarta e, data la quantità della prole e l’epoca non proprio favorevole all’autonomia femminile, esercitava il suo mestiere accanto a quello di moglie, madre e serva dei suoi genitori. Nessuno di loro due conosceva la musica o aveva mai suonato uno strumento. La Luciana si è sempre ritenuta stonata e quindi non l’abbiamo mai sentita provare un gorgheggio nemmeno per sbaglio. Giacomino amava cantare e ballare, ma la sua pratica musicale finiva lì, anche perché nella vita aveva avuto altre gatte da pelare.

Nemmeno l’ambiente in cui eravamo immersi offriva stimoli al riguardo. Vivevamo in campagna, anche con i nonni e in un casone con osteria, emporio e tabaccheria. Attorno c’erano solo contadini, stalle, campi di frumento e, pur abitando a pochi chilometri da Busseto e quindi nel bel mezzo delle terre verdiane, l’eco di Rigoletto, Traviata o Falstaff ci arrivava molto diluito perché nessuno in famiglia era mai andato all’opera. Solo la nonna canticchiava mentre faceva finta di fare i mestieri, ma con una tale malagrazia melodica e ritmica che ti veniva da dire: mo senti che squintimento.

Come, in un ambiente così, sia venuto in mente ai nostri genitori di avviarci non a studi di ragioneria, agraria o geometra, come la maggior parte dei nostri compagni di scuola, ma alle note e in modo professionale, è una di quelle storie italiane da anni Sessanta che hanno a che fare un po’ con il caso e un po’ con altre ragioni. La prima: Giacomino e Luciana erano due disposti a tutto pur di dare ai figli ciò che loro non avevano avuto, ovvero lo studio e tutto ciò che ne consegue. La seconda: erano due visionari un po’ fuori di zucca, tenaci e con tanti sogni personali non realizzati. La terza: avevamo un sacco di fame metaforica e cioè quel desiderio irrefrenabile di osare l’impensabile. La quarta: l’Italia di allora era sì socialmente classista, ma nell’aria si respirava la possibilità di cambiare e l’orizzonte era aperto, non chiuso.

Essendo la più grande dei quattro, è capitato a me di dare il via all’avventura. Non fu una scelta, ma il caso. In televisione avevo visto dei balletti. Affascinata dalla plasticità del corpo e del movimento, cominciai a desiderare fortemente di andare a studiare alla scuola di danza del teatro alla Scala. Mia madre non disse di no. Si informò e tornò con la seguente proposta: «Milano è lontano. Dovresti vivere lì da sola. Hai solo dieci anni. Non me la sento. E poi la danza è un mestiere insicuro. Si deve studiare tantissimo per anni. E se sul più bello ti rompi qualcosa? La carriera può finire ancora prima di cominciare. Dopo, che fai? Ho un’altra idea. In paese c’è un insegnante di pianoforte. Il pianoforte dura per sempre. Con la danza prima o poi devi smettere».

Il professore di piano si chiamava Parizzi, era un astioso secco come un’acciuga e mal sopportava i bambini. Non fu amore a prima vista, ma quello passava il convento e resistetti, anche perché Giacomino e Luciana dopo un mese decisero di acquistare un pianoforte e quindi mica si poteva deluderli. Il verticale usato arrivò un tardo pomeriggio di giugno e doveva essere portato al primo piano. Quando mio padre e il trasportatore si resero conto che da soli non sarebbero riusciti a sollevare un peso del genere, Giacomino scese in cortile e cominciò a fermare i vicini che tornavano a casa dai campi. In breve, quattro o cinque contadini, dopo aver parcheggiato motoseghe e trattori nel cortile, portarono su il pianoforte sudando e dicendo: «Mo am cardeva mia che cul bagaglio qui era così peso, veh».
Il pianoforte fu piazzato nel corridoio che divideva le camere da letto e lì cominciai i miei esercizi che, come sanno tutti coloro che hanno praticato uno strumento, all’inizio sono uno strazio per chi deve sentirli. A parte i nonni, che disapprovarono subito quella scelta ritenendola inutile e dispendiosa, nessuno si lamentò. A Giacomino e Luciana bastava che il professor Parizzi fosse contento.

Nel frattempo anche Pietro, di un anno e mezzo più piccolo, si era dato alla musica. Grazie alla sua voce bianca fuori dal comune era diventato una dei solisti della corale di Soragna dove entrammo anche io per forza di inerzia, Giacomino per autentica passione vocale. A mio fratello, però, il destino riservava altre sorprese. Vivace, curioso e intenibile, era la disperazione dei professori che lo bocciarono in seconda media. Nostra madre era molto preoccupata per il suo avvenire, anche perché in un tema intitolato «Racconta che cosa vuoi fare da grande», lui aveva scritto «Il pensionato, così prendo i soldi e non devo lavorare».

La Luciana contattò un suo compaesano che era primo flauto alla Rai di Torino e docente al conservatorio di Piacenza, gli raccontò le sue ansie e gli chiese un consiglio. Giorgio Finazzi le disse: «Prova a fagli fare l’esame di ammissione in conservatorio. Ci sono le medie interne e, se ha talento, si vedrà». Lo presero subito, non nella classe di flauto che era affollata, ma in quella di violino e così Pietro cominciò a prendere ogni mattina la corriera alle 6.40 e il treno alle 7.15 per andare Piacenza. Lì restava anche tre pomeriggi a settimana fermandosi a mangiare presso la famiglia di un compagno a cui la Luciana aveva chiesto aiuto per non lasciare quel figlio in balia di una città sconosciuta. Li ricompensava economicamente, ma nessuna cifra ai suoi occhi sarebbe stata adeguata alla sua gratitudine. Il consiglio di Finazzi si rivelò subito la soluzione di tutto. Pietro era letteralmente abitato dalla musica e, benché costantemente refrattario alla disciplina, il suo talento e la sua simpatia lo resero ben presto uno degli allievi più popolari della scuola. Ma mentre la Luciana e Giacomino si rasserenavano per quel risultato, cominciarono per me le prime divergenze di fratellanza e proprio per ragioni musicali.

1.continua