C’è vita a sinistra, ma credo anche un grande vuoto di analisi, chiarezza e consapevolezza intorno ad un tema dirimente come la guerra considerato che dal 1989 l’Italia, già pesantemente schierata, è diventata un paese direttamente belligerante con un portato di responsabilità etiche e materiali incalcolabili.

Mi impressiona non poco il fatto che nel dibattito in corso sulla costruzione di un nuovo soggetto politico con vocazione di governo e potere, la grande questione della politica estera e militare sia una sorta di ectoplasma senza contorno e sostanza, evocata velocemente per aggiungere un piglio etico al ragionamento. Siamo tutti consapevoli che il mondo è decisamente multipolare ed interdipendente, siamo tutti internazionalisti (?) e contro la guerra ma eludiamo la questione rifugiandoci troppo spesso dietro ad un approccio esclusivamente contestatario o molto peggio rinunciatario (per una sorta di silenziosa accettazione della realpolitik?).

Tuttavia, se la prospettiva è quella riformatrice e di governo, credo sia imprescindibile abbandonare un certo provincialismo (anche eurocentrico) e sviluppare per tempo un’analisi che possa produrre un piano strategico di riforme strutturali da proporre e collocare in una prospettiva generale coerente ed organica. Un piano strategico di riforme evidentemente informato da una nuova strategia di politica estera che non può continuare ad essere considerata un tema minore, una sorta di optional. Senza questa capacità di elaborazione e proposta temo che il nuovo soggetto politico possa nascere gravemente ed irresponsabilmente monco.

La concreta non belligeranza del nostro Paese (e non solo) può essere considerata una questione dirimente e costituente nel quadro di una ricomposizione politico-organizzativa a livello nazionale ed europeo?

Guardiamo alla storia recente: i governi italiani degli ultimi ventiquattro anni (di centrodestra, centrosinistra e “tecnici”) ci hanno trascinato in tutte le avventure belliche Nato/statunitensi, a prescindere spesso anche da qualsiasi valutazione di così detto “interesse nazionale”, come se la politica estera fosse direttamente telefonata da Washington. Nello stesso lasso di tempo e sempre con la stessa blindata trasversalità politica, sono state ulteriormente concesse nuove porzioni di territorio nazionale per consistenti ampliamenti e nuova costruzione di installazioni militari strategiche (sempre statunitensi).

Credo che questo livello di imbarazzante sudditanza e di belligeranza non abbia eguali in Europa se non in Gran Bretagna che però è anche nei fatti il secondo anello decisionale della Nato dopo gli Stati uniti.

Ma in questo mondo multipolare, ciò che impedisce la definizione di una nuova politica estera, commerciale, energetica e di reperimento delle materie prime (di cui abbiamo assoluto bisogno) che non sia aggressiva ma cooperativa sono gli stessi punti di forza su cui si fonda la nostra belligeranza.

Si tratta di nient’altro, se non della privatizzazione spinta della guerra, fotocopia del più che consolidato modello anglo-americano, appendice della più generale privatizzazione della società.

Persino il tema della riduzione delle spese militari rischia di essere, nel quadro attuale e senza una chiara iniziativa riformatrice, un’arma a doppio taglio: un esercito professionale europeo oggi costerebbe infinitamente meno ma non perderebbe minimamente la sua funzione offensiva/neocoloniale.

Credo sia arrivato il momento di pensare in maniera organica ad un articolato piano B (considerata la dirompente lezione greca) per uscire dal club Nato affrontando ed analizzando le questioni più sopra elencate, studiando e considerando modelli alternativi di forze armate e relazioni, alleanze, scambi internazionali. Si potrebbe cominciare con la pubblicazione e discussione democratica degli accordi segreti che regolano la presenza militare statunitense sul nostro territorio da sessant’anni.

E poi, senza andare troppo lontano (anche politicamente), guardiamo a due Paesi confinanti come la Svizzera e l’Austria entrambi neutrali, entrambi dotati di eserciti di leva strutturalmente incompatibili con gli standard Nato ma perfettamente integrati con le esigenze logistiche della Protezione civile. Pensiamo all’Austria in particolare (0,6% del Pil per la difesa), che sta in Europa come noi ma senza aver partecipato a guerre d’aggressione ed anzi proponendosi come centro internazionale per il disarmo nucleare e dove in un referendum nel 2013 il 60% della popolazione si è espressa contro la professionalizzazione dell’esercito perché questo passaggio avrebbe intaccato l’assetto neutrale del paese. E’ così impensabile elaborare una prospettiva che veda nell’Italia il paese trainante di un polo neutrale in seno all’Europa (tra l’altro piuttosto instabile), che sappia abbandonare l’attuale disastrosa attitudine neocolonialista e belligerante per una concreta, proficua e pacifica cooperazione strategica?