Valerio Rocco Orlando (Milano, 1978), laurea in drammaturgia all’Università Cattolica di Milano e master in Regia alla Queen Mary University di Londra, si è affermato nel côté artistico attraverso un lavoro multimediale intorno al senso di comunità, collettività e impegno, soprattutto soffermandosi sulla relazione dicotomica «de l’être singulier pluriel», il paradosso filosofico elaborato da Jean-Luc Nancy su cui l’autore ha imperniato il video Lover’s Discours.
La sua è una pratica di lavoro che si avvolge nel tempo, attraverso il proprio vissuto e che interferisce con la territorialità e la soggettività dei partecipanti ai suoi progetti. Una metodologia creativa che si affida anche alla coazione di artisti, filosofi, musicisti come Ugo Rondinone, J-L. Nancy, Michael Nyman, Liam Gillick. Identità appartenenza e condivisione sono i temi cardine che hanno generato i suoi ultimi lavori, come la video-installazione Lover’s Discours (2010), realizzata a New York attraverso un open-call per amanti e coppie che riferivano sui sentimenti.
La stessa pratica partecipativa Orlando l’ha attivata in Quale educazione per Marte?, un progetto realizzato alla Fondazione Nomas (2011) di Roma e poi riaccesa alla XI Bienal de l’Habana del 2012: qui, attraverso un workshop con gli studenti delle scuole superiori, indagava sui sistemi educativi internazionali. Fino ad arrivare a The Reverse Grand Tour, presentato alla Galleria d’arte moderna di Roma (2013), un lavoro modulato nell’arco di un anno, convivendo con i residenti degli Istituti di cultura europei nella capitale, per scoprire il significato che ha oggi per gli artisti stranieri risiedere in Italia e, quindi riflettendo sul senso del Grand Tour stesso.
In questi mesi, l’artista sta portando avanti il progetto Interfaith Diaries, presso la Artport Foundation di Tel Aviv. Sta continuando a lavorare, nonostante il drammatico riacutizzarsi del conflitto arabo-palestinese.

Come è nata l’idea di realizzare un nuovo progetto a Tel Aviv?

Lo scorso anno, quando sono stato invitato da Vardit Gross, direttrice di Artport, a produrre un nuovo lavoro in Israele, ho subito pensato fosse l’occasione adatta per dare vita a Interfaith Diaries, un viaggio spirituale che da tempo intendevo realizzare in comunità differenti per fede e appartenenza. Volevo entrare in relazione con il sentire delle ultime generazioni. È un progetto che nasce dall’urgenza di una rinascita personale che auspico avvenga proprio attraverso il confronto con quella nuova ondata di ricerca spirituale che è trasversale, nei giovani tra i venti e i trenta anni, in diverse aree del mondo. Qual è il senso profondo di questa scelta e come influenza la vita all’interno della comunità? E ancora, quali sono, a livello globale, le potenzialità di un nuovo dialogo tra gli individui?
Dal punto di vista sociologico si è parlato di «religious renaissance», con la doppia accezione di rinascita individuale da una parte e rinascimento, a livello collettivo, dall’altra. È questo spostamento che mi preme indagare, in prima persona, attraverso una pratica quotidiana radicata non tanto nella storia e nella tradizione, ma nel presente. E Israele è di fatto un contesto ideale.

Come si è sviluppato finora il progetto?

Prima di partire per questo viaggio, pensavo che avrei dovuto trascorrere la maggior parte del mio tempo a Gerusalemme, città santa per ebrei, cristiani e musulmani. In questi primi mesi di ricerca, invece, vivendo tra Jaffa e Tel Aviv, dove si trovano il mio appartamento e lo studio, ho avuto modo di imbattermi in altre esperienze che hanno attirato il mio interesse. Il focus della ricerca si sta sviluppando verso direzioni inconsuete e una nuova metodologia di lavoro. Più che concentrarmi sulle comunità ortodosse, sono riuscito a entrare in contatto con individui che non necessariamente hanno un background religioso, eppure, a un certo punto della loro vita, hanno sentito il bisogno di porsi delle domande profonde, in relazione a Dio, in ogni sua forma. L’incontro è il mio medium. Le storie che raccolgo non appartengono a un gruppo specifico di persone, ma rappresentano un continuo movimento tra una fede e un’altra, una sinagoga e un centro religioso.
In particolare, mi interessa approfondire il concetto di Nefesh che sposta il centro della personalità dall’individuo alla comunità. E ancora la sfera dell’interumano teorizzata da Martin Buber per cui il valore dell’incontro va al di là della semplice coesistenza e crescita individuale. Nella pratica, sto chiedendo a diversi interlocutori di invitarmi a camminare assieme, per attraversare un luogo che rappresenti, in questo momento, il loro viaggio interiore, in una sorta di pellegrinaggio personale.

Il contesto geopolitico in cui stai lavorando ha influenzato e cambiato, in corso d’opera, l’idea iniziale?

Interfaith Diaries prevede la realizzazione di una nuova videoinstallazione e di un libro d’artista, oltre a una serie di laboratori aperti a tutti, e anche la collaborazione con un attore professionista del luogo che possa farmi da da ponte, così che io possa comprendere meglio la mia stessa esperienza. Da settimane  sto negoziando la partecipazione al progetto di Saleh Bakri, conosciuto in Italia per il film Salvo, attivo sostenitore delle campagne Bds (Boycott, Divestment and Sanctions) e Pacbi (Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel). Il mio progetto non gode di finanziamenti legati al governo di Israele, ma viene realizzato grazie al supporto della Ted Arison Family Foundation, un’organizzazione nonprofit americana che sostiene artisti emergenti e mid-career internazionali. Sono consapevole di muovermi in un terreno minato, è probabilmente la sfida più grande che ho affrontato finora. Mi auguro di riuscire a dare vita alla pluralità di voci che chiamo a partecipare nel rispetto di ogni prospettiva personale.

Gli eventi incandescenti di questi giorni che ripercussioni stanno avendo sul lavoro?

Nelle ultime due settimane ho avuto la sensazione di trovarmi al momento sbagliato nel posto sbagliato. Ero sopra il Monte degli Ulivi quando sono iniziate le rivolte a Gerusalemme Est, e anche nella città vecchia la tensione era tangibile: difficile muoversi e fare domande, le Yeshiva hanno chiuso i battenti, così come la Spianata delle Moschee. Nei territori, i posti di blocco hanno rallentato ogni spostamento, mentre nel deserto del Negev, sulla strada per tornare a Tel Aviv, ho incrociato un convoglio militare che trasportava Merkava, per l’attacco via terra. Un continuo boato di razzi ed elicotteri nel cielo, le strade praticamente deserte. Ho annullato i viaggi verso nord, Haifa e Tsfat.
In verità, non mi resta che prendere tempo per capire cosa fare. Le relazioni e i dialoghi sono inevitabilmente alterati dal conflitto, e nonostante il mio obiettivo sia quello di creare un discorso di stampo intimista che valichi i confini e le dissonanze, l’equilibrio sempre precario tra personale e sociale qui rischia di sfaldarsi per assumere una chiave decisamente politica. In Israele la religione è un fatto politico, eppure io voglio credere possa essere un mezzo per una rivoluzione profonda e reale, in chiave di consapevolezza a livello individuale e di comunità.

Come stai vivendo psicologicamente e logisticamente l’allerta di questi ultimi giorni?

La mattina mi sveglio con la sirena, mi alzo dal letto e mi sposto nel bunker. Senza ansia, sembrano tutti convivere con questa quotidianità. Succede un paio di volte al giorno, forse tre. La condizione generale è di apparente normalità. All’inizio mi infastidiva vedere come tutti continuavano a vivere il loro quoditiano come se niente fosse, mentre a Gaza le vittime continuavano ad aumentare. In realtà, mi sono reso conto che questa è una difesa, semplicemente per non cadere nella spirale del terrore. Jaffa e Tel Aviv in generale sono come una bolla, in cui si combatte una guerra virtuale.
Se alziamo gli occhi, a volte vediamo il blu del cielo interrotto da tracce di esplosioni. Le reazioni sono diverse, l’ironia prevale sui social network, e proprio in quei momenti mi rendo conto che, nonostante il mio perpetuo desiderio di appartenenza, a questa terra che tutti vogliono solo per sé è davvero difficile appartenere.