Da una parte un Pd che porta come suo testimonial Pierre Moscovici, il francese commissario per gli affari economici dell’Unione europea, socialista rigorista, che oggi si presenta come sponsor della flessibilità a favore dell’Italia e avverte che il suo successore «sarà meno flessibile di me». Dalla stessa parte il presidente Pd Paolo Gentiloni (che martedì ha fatto da spalla alla corsa dell’europarlamentare Roberto Gualtieri), teorico delle compatibilità e delle alleanze al centro, tanto da augurarsi che il premier spagnolo Sanchez, socialista, abbandoni la sinistra di Unidas podemos e si allei con i centristi di Ciudadanos.

Dall’altra parte invece un Pd che tenta di ridarsi un’anima sociale, che sfida i 5 stelle, modera i toni sul reddito di cittadinanza («non va deriso con iattanza», dice Zingaretti) e propone il salario minimo. E tifa per l’accordo fra Psoe e la sinistra spagnola.

Nelle ore decisive della campagna elettorale per le europee va in scena il «Pd plurielle», come lo chiamano alcuni, un po’ a sfottò un po’ per trovare una citazione nobile, quella della Francia di Lionel Jospin, alla mezza babele dei candidati che praticano l’unità ma predicano progetti politici con qualche differenza di troppo. Sfumature, toni. Ma non solo.

Basta l’esempio di Moscovici: mesi fa il commissario era considerato il «naturale» spitzenkandidat (candidato presidente) dei Socialisti e democratici, ma una rivolta nel gruppo di Bruxelles ha stoppato l’ipotesi: troppo rigorista, troppo continuista con l’Unione delle larghe intese fra Ppe e S&D. Al suo posto è stato è stato scelto l’olandese Frans Timmermans, ambientalista attento alle questioni sociali, ma comunque vice di Junker nella Commissione europea e sui temi economici non vicino alla sinistra socialista. «Moscovici è certamente una figura autorevole», ammette con garbo Francesco Boccia, ex presidente della commissione finanze della camera, «ma rappresenta il passato che non ha capito fino in fondo la crisi. Una crisi che negli anni peggiori ci ha fatto aumentare il debito di trenta punti stando fermi», «Noi proponiamo di costruire un’Europa sociale forte e aperta». Tanto che lo stesso Gentiloni ha dovuto difendere il commissario: «Moscovici non è il carnefice dell’Italia, ma in questi anni è stato un prezioso interlocutore che ha consentito i margini di flessibilità che hanno permesso di fare i bilanci», ha replicato. «Le alzate di sopracciglio di alcuni di noi indicano un problema nella posizione del Pd e della lista unitaria: noi dobbiamo difendere l’Europa per poterla cambiare».

C’è un «problema», dunque, dentro il Pd. Europeo ma anche molto italiano. E i nodi al pettine arriveranno subito dopo il 26 maggio. Ieri a Roma, in un’assemblea alla presenza del segretario Nicola Zingaretti, il suo (ex) braccio sinistro Massimiliano Smeriglio ha preso la questione alla larga, ma neanche troppo: «I socialisti spagnoli hanno vinto con un programma chiaro», ha spiegato, «al centro c’è la ridistribuzione della ricchezza e delle opportunità, la lotta all’austerità, il salario minimo, la tassazione sulle transazioni finanziarie alle imprese sopra un miliardo di capitale, la tassazione del 4 per cento sui redditi sopra i 300mila euro». Quanto al «campo» del «nuovo Pd» per Smeriglio non è quello della Francia di Macron ma quello «del Portogallo di Costa, della Spagna di Sanchez, della Grecia di Tsipras.

Zingaretti si barcamena, prova a tenere in equilibrio la barra della lista che ha voluto aperta al centro e a sinistra, da Calenda – e Gentiloni – a Smeriglio e Pisapia. Nel suo libro, uscito proprio ieri (Piazza Grande, Feltrinelli), per esempio non propone la patrimoniale, «in Italia ci sono altre strade». Ma la difende dagli sberleffi anche dei suoi: «Non è un’idea bislacca partorita da menti estremiste. Roosvelt, per dare una spinta concreta all’economia americana e ristabilire una coesione e una fiducia nel suo paese devastato dalla crisi economica, impose alle grandi ricchezze un prelievo fiscale di oltre l’80 per cento».

E oggi Zingaretti presenterà al senato la proposta dem di salario minimo. Oggettivamente un passo in direzione dei 5 stelle. Stando però attento in questo a non urtare l’ipersensibilità del renziano Andrea Marcucci che gli starà a fianco. E restando comunque guardato a vista dalla Cgil, che sulla prima versione della proposta dem aveva fatto scattare il semaforo rosso. Ma che il Pd debba «ridarsi un’anima sociale» ormai è senso comune fra i zingarettiani della prima e della seconda ora. Ne è convinto Cesare Damiano, ex ministro del lavoro di Prodi, che ha collaborato al nuovo testo sul salario: «Sui temi sociali il Pd ha dato un’impressione di indifferenza e questo ha contribuito a costruire la sconfitta nel 2018», ragiona. «Proprio su questi temi, con il reddito di cittadinanza o quota 100, i 5 Stelle e la Lega hanno generato una parte consistente del proprio consenso. La realizzazione delle misure ha poi mostrato tutti i limiti dell’azione del governo», «ma fare un’opposizione aprioristica a queste misure sociali ci ha impedito di proporre soluzioni alternative, percepite come valide dal Paese.