Nella «settimana in cui sulle riforme si decide» come giustamente ha detto ieri Renzi, l’accordo destinato a sbloccare la situazione non è quello con Berlusconi (che si potrebbe terene giovedì) e tanto meno quello con Grillo. E’ quello con l’omonimo padano, Matteo Salvini. Il Pd, ieri, dava per certo un incontro entro la settimana. Salvini smentisce, ma si tratta di un particolare. I due Mattei non devono cercare un’intesa ma ratificare un trattato già steso da Roberto Calderoli. L’ultima parola ancora non è detta, ma al momento nulla sembra ostacolare davvero l’intesa, in base alla quale il Carroccio si impegnerà a sottoscrivere sostanzialmente il Senato disegnato da Renzi, con tanto di elezione di secondo livello e di plotone di sindaci.

A Berlusconi questa storia dei sindaci si sa che proprio non va giù. Su quel fronte il suo esercito è da sempre debole. Ma con il cambio di fronte dei 14 senatori leghisti, sommato al probabile ritorno all’ovile di una parte dei ribelli del Pd, il peso del sostegno azzurro scemerà vertiginosamente, anche se Renzi si sta dando da fare per presentare l’intesa con la Lega nella maniera più dipolomatica possibile per non irritare troppo Berlusconi, che resta un socio prezioso. E’ questa la carta sulla quale ha puntato da subito dopo le elezioni Renzi, affidando alla neofedelissima Anna Finocchiaro il compito di trattare con Calderoli.

Tutto a gonfie vele dunque? In realtà fino a un certo punto. La politica italiana vanta una folta casistica di accordi basati sulla compravendita di fumo e spacciati poi per magnifiche vittorie, quel che in gergo si chiama «salvare a tutti la faccia». Ma con la Lega questo giochino non ha mai funzionato: Silvio Berlusconi lo imparò a sue spese nel 1994 e per questo, in seguito, privilegiò sempre l’intesa con il Carroccio rispetto a tutti gli altri partner, e persino al suo stesso partito. La Lega bisogna pagarla sul serio, e in moneta sonante. Nel patto stilato dall’astuto Calderoli il prezzo è salatissimo.

Il Titolo V della Costituzione, quello che ha instaurato la disastrosa via italiana al federalismo, avrebbe dovuto essere, se non proprio cancellato, almeno drasticamente ridimensionato. Dopo un decennio di rallentamenti peggio che su un’autostrada il primo di agosto dovuti al pasticcio della “legislazione concorrente”, grazie alla quale nessuno sa più chi debba decidere su cosa, se lo Stato centrale o le amministrazioni locali o tutti e due, buona parte delle competenze sarebbero dovute tornare al centro. Resteranno invece alle Regioni: quasi certamente non si andrà oltre un ritocco di facciata e anzi il dilemma sarà spesso risolto a favore delle Regioni. Non che Calderoli e Salvini si accontentino di questo. Chiedono che si lasci non uno spiraglio socchiuso ma una porta spalancata per l’introduzione a breve di «ulteriori elementi di devolution».

Il punto dolente è che, se il bicameralismo perfetto è un impaccio limitato, che rallenta sì le cose ma di poco e i cui costi non sono iperbolici (peraltro resterebbero quasi invariati dopo la riforma), il Titolo V voluto dal centrosinistra è invece devastante. I costi della politica si sono moltiplicati per la necessità di mantenere le clientele locali. Per la corruzione, poi, il federalismo è stato quel che le paludi sono per la malaria e quanto a rallentamenti burocratici la legislazione concorrente non teme rivali.

Alla fine, salvo possibili ma improbabili intoppi, Renzi otterrà grazie al patto padano il suo Senato riformato: i vantaggi in termini di propaganda spiccia saranno notevoli. Ma il prezzo pagato da tutti con il mantenimento del Titolo V sarà da bancarotta.