Venticinque anni fa – allora ero nella segreteria nazionale dell’associazione e per questo seguii personalmente l’iniziativa –

Legambiente stabilì un accordo con la Cgil per proporre un Piano del lavoro. Purtroppo produsse pochi risultati, così come la sua riproposizione nel 2008, quando scoppiò la crisi finanziaria.

Adesso, in occasione della crisi epidemica, la Legambiente, e molte altre organizzazioni ambientaliste, hanno avanzato sacrosante proposte intese a uscire dalla crisi economica prodotta dal virus senza riavviare lo stesso modello di sviluppo che è all’origine dell’attuale catastrofe. Per parte sua il segretario generale della Cgil, Landini, nel suo messaggio del 1° maggio, ha riconosciuto la necessità per il sindacato di una riflessione seria su questo problema. Vuol dire che, forse, i tempi sono oggi più maturi per avviare la svolta necessaria.

Perché c’è più gente che come me quando sente il presidente della Confindustria snocciolare i dati sulla caduta del PIL comincia a chiedersi se da questa “decrescita infelice” imposta dal virus non ci sia da trarre non solo ansie per il futuro, ma anche una indicazione utile per la ripartenza. Si sta infatti lentamente prendendo coscienza che non è più praticabile una crescita che assegni alle merci, e all’industria che le produce, la stessa centralità del passato. Insomma: che per uscire dalle macerie sociali che il virus lascerà anziché forzare i vincoli della natura è meglio trasformarli in nuove opportunità.

Non c’è, quando usciremo dal confinamento, nessun Palazzo d’Inverno da conquistare, ma una lunga marcia, dentro e fuori dalle istituzioni, per costruire una nuova società in cui le relazioni umane non siano più mediate dalle merci, e misurata dal grado di sfruttamento operato ai danni della Terra; una società il cui la soddisfazione dei bisogni collettivi sia il fulcro del benessere e anche la prima fonte del lavoro.

Negli anni ’50 elettrodomestici, auto e case in proprietà rappresentarono quasi una rivoluzione; oggi è la trasformazione ecologica che deve costituire la nuova priorità. E, nel suo ambito, il punto più delicato, è il mutamento del lavoro, per fare in modo che la difesa della natura non appaia in contraddizione con l’occupazione, come oggi purtroppo è, ma solo un trasferimento da un lavoro a un altro.

Per questo ho ricordato quell’ormai antico patto per un comune Piano del Lavoro che 25 anni fa stabilimmo fra Legambiente e sindacato. Ed è peccato che i protagonisti essenziali della battaglia da fare, anche in questa occasione si siano ripresentati in ordine sparso, senza percepire il bisogno di unire le proprie forze, che non è solo un dato quantitativo ma un modo per tener conto delle specifiche esigenze rappresentate da ciascuna.

La transizione ecologica è fatta di tanti capitoli. Quello che più di altri potrebbe coniugare occupazione e necessità ecologica, è il progetto inteso a sottoporre l’intero patrimonio abitativo a un uso razionale dell’energia, un piano che oltre a richiedere molto lavoro, stimola la riconversione di interi settori economici e provoca nuova industrializzazione. Serve però un intervento su larga scala che renda vivibili ed efficienti anche le periferie delle città, in modo da costringere il settore delle costruzioni a operare per la riqualificazione dell’esistente e non più su una ulteriore occupazione di suolo. Questo indurrebbe anche l’espansione del settore fornitore delle tecnologie e dei nuovi materiali necessari all’illuminazione e al riscaldamento degli edifici. Sarà anche uno stimolo per ridefinire la mobilità di persone e cose.

Un simile progetto potrebbe coinvolgere altri soggetti collettivi: penso in particolare a Friday for future che acquisterebbe una preziosa vertenzialità, aprendo specifici conflitti, a partire dall’edilizia scolastica per avere edifici a emissioni zero. Penso anche al movimento femminista che va coinvolto in quanto tale, con il suo progetto di lotta al patriarcato, che può arricchire di contenuti gli interventi proposti, aprendo il capitolo dei lavori di cura come problema sociale, dunque anche sul come si dovrebbe vivere dentro le case ristrutturate.

E aggiungo in modo sommario l’enorme capitolo dell’agricoltura, cui occorre imporre l’abbandono di allevamenti e colture industriali, un progetto che potrebbe assorbire molto lavoro, trasferito dalle fabbriche alle campagne da decenni abbandonate; e però richiederebbe anche una remunerazione adeguata del lavoro contadino rimasta a livelli scandalosi.

Possiamo impegnarci su questi progetti e a tessere le alleanze necessarie a portarli avanti? Sono consapevole che non sarà il mercato da solo ad operare la svolta, che sarà necessario un forte intervento pubblico. So bene che per avere efficacia questo ragionamento dovrebbe essere fatto a nome di un soggetto collettivo, una associazione, un movimento, un partito, ma raccolgo l’invito a sognare del nostro presidente della repubblica, sperando di ritrovarlo al risveglio.