Il saggista israeliano Youval Harari due giorni fa sul Financial Times ha scritto che «in questi tempi di crisi siamo di fronte a scelte particolarmente importanti, la prima delle quali è tra sorveglianza totalitaria e rafforzamento dei diritti dei cittadini».

Riferendosi all’uso dei dati digitali che diversi governi stanno facendo, e altri come quello italiano, si apprestano a fare, per controllare la pandemia di coronavirus ha poi sottolineato come «la tecnologia può servire non solo ai governi per controllare i singoli ma anche ai cittadini per controllare i governi».

Mi sembra delinearsi con chiarezza nelle parole di Harari un patto digitale tra cittadini e governi che sarebbe fondamentale uscisse da questa crisi epocale: condividere per un uso sociale ed etico, i dati digitali personali.

Questo patto, oggi in Europa, grazie alla legge sulla privacy (GDPR e in particolare il suo articolo 20 sulla trasferibilità dei dati digitali personali) è già possibile per 500 milioni di persone.

Noi europei possiamo infatti richiedere a qualunque piattaforma o app digitale i nostri dati e concederli in uso a chiunque per scopi di natura anche sociale ed etica come la salvaguardia della salute.

Si tratta dunque di utilizzare per la tutela del bene comune della salute le enormi possibilità messe a disposizione dalle tecnologie innovative per recuperare quei tracciati digitali sociali che ogni secondo concediamo gratuitamente e spesso inconsapevolmente, per utilizzare quelle applicazioni che fanno sempre più parte della nostra vita, e consentire un’analisi scientifica di questi dati per permettere alle autorità un contenimento efficace e rapido della pandemia.

Questo si può fare e va fatto senza indugio, ma richiedendo alle autorità la sottoscrizione di un accordo fiduciario (patto) che consenta in cambio al cittadino il diritto alla piena proprietà dei suoi dati digitali, diritto che non è ancora pienamente riconosciuto .

Privacy e diritto alla salute possono coesistere. Tutto dipende dal consenso informato come ci insegna proprio la bioetica medica, che fornisce uno strumento necessario per conciliare fini sociali rilevanti con la legittimazione sociale, che in una liberal democrazia dipende appunto dal consenso individuale.

Il mondo dopo la pandemia non sarà più quello di prima perché non sono i mercati, né le tecnologie o il destino che muovono le cose ma viceversa è la nostra comprensione di come funziona il mondo che modella le istituzioni, le idee e le stesse tecnologie.

E la nostra visione del mondo oggi richiede l’utilizzo dei Big Data per scelte personali più informate.

Senza un accelerazione culturale e politica che prenda consapevolezza dell’immenso potenziale sociale che ci concede la condivisione trasparente e consapevole dei dati digitali, avremo dopo questa pandemia, come paventa Harari, una società sempre più dominata da un lato dalle tech company del cosiddetto «capitalismo di sorveglianza» e dall’altra da «tecnocrature» illiberali.

Perché i dati digitali divengano un bene comune e aiutino a risolvere anche tutti gli altri problemi che la pandemia avrà ingigantito bisognerà tenere conto dell’interazione necessaria tra i diritti di proprietà individuali e i beni comuni come la salute, l’ambiente e l’uguaglianza sociale.

Oggi dobbiamo chiedere ai governi di siglare questo patto della condivisione etica dei dati anche perché il bene comune della conoscenza scientifica sia condiviso, in tempo reale, per salvare milioni di vite umane attraverso la realizzazione di un vaccino che sia però di tutti e a disposizione di tutti e non di proprietà di pochi per venderlo ad alcuni.

*Responsabile Innovazione Lega Coop Nazionale