Il «deus ex machina», il capo del sindacato degli ambulanti egiziani, ha parlato (di solito lo faceva con la polizia, l’altro ieri con un giornalista).

Le affermazioni di Mohamed Abdallah, rilasciate alla giornalista Rana Mamdouh in un articolo dell’Huffington Post Arabi sugli sviluppi delle relazioni tra le procure di Roma e del Cairo sull’omicidio di Giulio Regeni, confermano quanto di lui scriveva proprio Giulio («una miseria umana») e la squallida grettezza di un personaggio che basa prestigio, reputazione e ascesa sociale su quanto egli si dimostri fedele alle istituzioni e sul numero di matrimoni che vengono omaggiati dalla presenza di uno o più agenti.

Nelle sue dichiarazioni, dopo aver confermato di aver «passato» al ministero dell’Interno tutte le informazioni raccolte nel corso di incontri e telefonate con Giulio (persona sospetta per il mero fatto di far interviste per la sua ricerca!), Abdallah racconta l’ennesimo finale depistante: a uccidere Giulio, ormai «bruciatosi» grazie al patriottico dovere informativo compiuto dal sindacalista, sarebbero stati coloro che lo hanno mandato al Cairo.

Con lealtà, Abdallah difende i suoi capi e protettori (e di fatto li incrimina) ma propone l’ennesima «verità» che non sta in piedi e che però ha avuto il parziale effetto, in Italia, di ridare fiato alle tesi dell’estraneità delle istituzioni egiziane alle torture – invece pratica consolidata del regime, perché il caso Regeni non è un caso isolato – e all’omicidio di Giulio, del complotto ordito da soggetti stranieri contro le relazioni tra Italia ed Egitto.

Non sta in piedi, la «verità di Abdallah» e risulta persino un passo indietro rispetto a quella mezza verità (la «verità di comodo») che iniziava a profilarsi come possibile conclusione delle indagini dal lato egiziano: che qualche funzionario di polizia, di quelli allertati da Abdallah, possa aver agito indipendentemente e, con un miracoloso coordinamento spontaneo, aver tenuto nascosto al mondo Giulio per nove giorni, spostandolo da un luogo all’altro, torturandolo ferocemente, uccidendolo e facendolo riapparire ai margini dell’autostrada per Alessandria.

Viene da chiedersi da cosa sia dipesa questa improvvisa loquacità di Abdallah. Se a lui, che è l’anello debole di questa catena di depistaggi e impunità, qualcuno abbia chiesto in questi giorni di prendere la parola per scagionare, in modo certo maldestro, qualche funzionario designato come «sacrificabile» in nome della «verità di comodo»? Sono ipotesi, naturalmente.

Una sola cosa le dichiarazioni di Abdallah confermano: che non è minimamente il momento di rimandare l’ambasciatore al Cairo. Prima di Natale, come si ricorderà, il quotidiano la Repubblica riferiva di voci della Farnesina che davano per imminente, per un periodo di prova, il ritorno al Cairo del (nuovo) ambasciatore italiano. La procura di Roma si era trovata costretta a smentire che vi fosse alcuna novità tale da far assumere una decisione del genere. In un breve accenno nel suo incontro di Capodanno con la stampa, il primo ministro Gentiloni si è limitato a fare riferimento a recenti «segnali di collaborazione» della procura egiziana.

Al Cairo il ritorno dell’ambasciatore italiano sarebbe considerato un successo della diplomazia egiziana e l’indicazione della imminente fine delle indagini. Come l’Egitto interpreterebbe il ritorno dell’ambasciatore sarebbe già un motivo più che sufficiente per non rimandarlo. E comunque per rimandare l’ambasciatore italiano in Egitto, non bastano né la «verità» di Abdallah né quella, di comodo, delle «mele marce». Occorrerà insistere perché arrivi la «verità vera». Ossia, necessariamente, una verità scomoda. Come quelle che circondano terribili violazioni dei diritti umani.

* Portavoce Amnesty International Italia