Il prossimo 28 settembre si celebreranno i centocinquant’anni dalla fondazione dell’International Workingmen’s Association (la Prima internazionale), avvenuta a Londra nel 1864 durante un’assemblea pubblica al St. Martin’s Hall. L’evento costituì il punto di convergenza di molteplici percorsi politici intrapresi dopo il fallimento della rivoluzione del 1848. Non fu un caso se la Prima internazionale nacque a Londra: la capitale britannica, avamposto del liberalismo, era divenuta da tempo il punto di ritrovo di rivoluzionari e patrioti di ogni nazionalità d’Europa, favorendo l’incontro fra posizioni politiche anche diverse fra loro. Tra le tante figure che popolarono il multiforme movimento democratico postquarantottesco vi furono protagonisti ben noti: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Louis Blanc, Karl Marx, Pierre-Joseph Proudhon, Lajos Kossuth. Furono loro, insieme a molti altri sindacalisti, radicali, socialisti, comunisti, anarchici, ad animare la storia del movimento democratico di metà Ottocento, in una fase in cui quest’ultimo fu soggetto a una generale repressione.

La ricomposizione di tale mosaico di uomini, avvenimenti e idee è al centro di un recente studio di Fabio Bertini, storico del Risorgimento e del movimento operaio italiano e internazionale. Il suo ultimo libro, basato su una molteplicità di fonti archivistiche e a stampa, si concentra sulla fase genetica del movimento internazionale dei lavoratori, con riferimento al periodo compreso fra la rivoluzione del 1848 e la nascita della Prima internazionale (Figli del ’48. I ribelli, gli esuli, i lavoratori. Dalla Repubblica Universale alla Prima Internazionale, Aracne, pp. 564, euro 25).

Dopo il 1848 una delle maggiori ambizioni del movimento democratico fu quella di contrastare le tendenze centrifughe esistenti al proprio interno, evitando al contempo di separare le rivendicazioni politiche e nazionali dalla lotta per l’emancipazione economica e sociale dei lavoratori. Tale obiettivo si rivelò di non semplice attuazione, anche a causa della pluralità delle diverse prospettive rivoluzionarie, spesso incompatibili fra loro. Ognuno dei protagonisti di questo vasto movimento si definiva «democratico», ma dava a quest’ultimo termine un significato diverso. Nonostante ricercassero tutti una nuova società di tipo repubblicano, gli oppositori della vecchia Europa interpretavano diversamente il rapporto fra la classe e la nazione, forme di appartenenza e categorie caratterizzate da un rapporto complesso, come la storia successiva avrebbe dimostrato.

La divisione dei lavoratori e di tutto il movimento democratico tendeva a manifestarsi tanto sul piano delle ideologie e delle identità nazionali, quanto sul terreno delle rivendicazioni economiche e sociali. Una circostanza che, come è facile intuire, andava a tutto vantaggio delle forze reazionarie e della repressione poliziesca. Se ne resero pienamente conto Marx ed Engels, i quali non a caso chiusero il Manifesto del partito comunista del 1848 lanciando il famoso appello all’unità dei lavoratori («proletari di tutti i paesi, unitevi!»). Una frase che risuona anche nei successivi scritti marxiani sull’Internazionale. .

La storia ottocentesca mostra che non vi è mai stato nulla di spontaneo o di lineare nello sviluppo del movimento operaio. Tra Otto e Novecento solo attraverso una tenace attività organizzativa e educativa i lavoratori hanno cercato di acquisire la consapevolezza della propria condizione di classe sfruttata, superando la tendenziale rivalità fra loro stessi all’interno del mercato del lavoro. Questi risultati, peraltro, non sono mai stati conquistati una volta per tutte. Lo stesso approdo alla Prima internazionale, come è noto, si rivelò del tutto provvisorio: l’associazione, sciolta nel 1876, sarebbe rinata sotto altre forme solo nel 1889, per poi dissolversi nuovamente in occasione dello scoppio della Grande guerra.

Oggi, come è già avvenuto altre volte negli ultimi due secoli, molte difficoltà incontrate dal «fronte progressista» non dipendono solo dalla crisi economica e dalla conseguente guerra fra lavoratori di diverse condizioni e provenienze, ma derivano anche dall’incapacità di convergere verso sintesi politiche in grado di costruire fronti unitari di lotta. La cronaca europea di questi tempi non fa che confermarlo. Dalla consapevolezza di questo limite occorre ripartire, favorendo in ogni sede la ricomposizione dei saperi critici e delle rivendicazioni.