C’è un’intuizione nel lavoro politico di Pio La Torre, che non andrebbe lasciata cadere ed è invece caduta nel dimenticatoio. «La mafia è un fenomeno di classi dirigenti», ricorda il figlio Franco in un libro che mescola memorie personali e affetti con la vita pubblica e gli scritti del dirigente comunista assassinato da Cosa Nostra: Sulle ginocchia (Melampo editore) verrà presentato alla Casa del Jazz di Roma lunedì 11 maggio, alle 18, con Attilio Bolzoni e don Luigi Ciotti. «La compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)», scriveva l’esponente politico. Sarebbe bene tenerle a mente, queste parole, ogni volta che si ipotizza di trattative tra Stato e mafia, perché segnalano, anche sul piano storico, un importante rovesciamento interpretativo: «La mafia non è un fenomeno di classi subalterne destinate a ricevere e non a dare la legge, e quindi escluse da ogni accordo di potere», e i suoi membri «rappresentano una sezione niente affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi possono anche entrare in contraddizione, nello svolgimento dei fatti, con aspetti dell’attività della mafia stessa», scrive La Torre nel settembre 1975 sui Quaderni siciliani. Un fenomeno alimentato da interessi economici, dunque, e non un contropotere organizzato che affonda le radici nella distanza tra dominanti e dominati, nel Mezzogiorno soggetto a continue dominazioni.

La mattina del 30 aprile 1982 Franco è come ogni giorno nella redazione di Radio Blu (l’emittente legata al Pci di cui era il direttore), quando al telefono una voce dice: «Avete saputo che hanno ucciso Pio La Torre?». Suo padre aveva deciso di tornare a Palermo, dopo l’esperienza romana a Botteghe Oscure e in Parlamento, pur essendo consapevole dei rischi. Era una stagione in cui Cosa Nostra aveva deciso di uccidere chi osava combatterla e Pio La Torre aveva dato il nome alla legge che introduceva il reato di «associazione di stampo mafioso» (la Rognoni-La Torre, che sarà approvata dopo la sua morte). Il lunedì di Pasqua, a pranzo con Emanuele Macaluso, commentando l’offensiva mafiosa che insanguinava la Sicilia, aveva affermato: «Ora tocca a noi». Pochi giorni dopo, la profezia si avvera: alle nove del mattino La Torre e il suo compagno Rosario di Salvo vengono affiancati da una moto mentre, a bordo di una Fiat 132, stanno andando nella sede del partito a Palermo, e massacrati con decine di proiettili. Una sentenza condannerà, anni dopo, i killer e i mandanti, l’intera cupola di Cosa Nostra.

Il libro ripercorre tutte le tappe dell’impegno politico di Pio La Torre, dalle occupazioni delle terre negli anni Cinquanta alle marce contro i missili a Comiso (compresa l’indecente cancellazione dell’intitolazione dell’aeroporto per assegnarla a un generale dell’aeronautica ai tempi del fascismo), fino all’impegno, teorico e pratico, contro le organizzazioni criminali che non permettevano al sud Italia di crescere democraticamente e di svilupparsi economicamente.

Più che negli eredi del Pci, Franco La Torre mostra di avere fiducia in quei movimenti che praticano l’antimafia sociale, a cominciare dalle migliaia di giovani che militano nell’associazione Libera. Trapela invece la delusione perché chi avrebbe dovuto rinnovare quella storia non ha raccolto l’eredità di un uomo che pure dovrebbe figurare a pieno titolo nel suo pantheon politico. Nessuno ha voluto intendere l’intuizione fondamentale di suo padre: «La mafia è un fenomeno di classi dirigenti».