Con la pretesa di voto immediato e a prescindere, M5S ha scelto come bandiera l’antiparlamentarismo. La carica elettiva come poltrona da tagliare per ridurre i costi, data a manichini obbedienti per vincolo di mandato, agli ordini non di chi li ha votati ma di pochi militanti in rete, bypassati con il referendum propositivo.

Questo in sintesi l’angusto orizzonte M5s. Certo il taglio non trova nobiltà – come vorrebbe Di Maio in Tv – nel risibile argomento che meno parlamentari producono meno emendamenti, meno leggi, norme più chiare e cittadini più felici. Dovrebbe almeno sapere che da lungo tempo sulla qualità e quantità delle norme è decisivo il governo.

Un parlamento debole e delegittimato favorisce l’assalto presidenzialista, che già si avvia in chiave pre-elettorale a firma del duo Salvini-Meloni. Non è argine una riforma sbilenca, dannosa, da correggere. In un documento del 7 ottobre i capigruppo di maggioranza elencano gli “impegni comuni”, ovviamente rebus sic stantibus: riforme costituzionali, legislative e regolamentari. Alcune necessitate, altre ambigue e opinabili, altre ancora inaccettabili.

Tra le prime è eliminare la base regionale nell’elezione del senato, per recuperare rappresentatività in ogni parte del paese. Ovvia anche la riduzione dei rappresentanti regionali nell’elezione del capo dello Stato.

Entriamo invece in un campo minato con la legge elettorale. Si vuole “garantire più efficacemente il pluralismo politico e territoriale, la parità di genere e il rigoroso rispetto dei principi della giurisprudenza della Corte costituzionale”.

Trionfa l’ambiguità. Tutto è possibile, dal maggioritario uninominale di collegio al doppio turno, al proporzionale senza se e senza ma. Non si dice l’ovvio: con numeri così ridotti una ragionevole rappresentatività viene solo da un proporzionale di lista e preferenza con recupero dei resti su base nazionale e soglia ragionevolmente bassa. Sempre che si assumano – come si dovrebbe, al di là del proprio interesse particolare – le assemblee elettive come perno di un sistema democratico.

È poi allarme rosso quando si evoca per via regolamentare una “disciplina del procedimento legislativo allo scopo di dare certezza di tempi alle iniziative del Governo e più in generale ai procedimenti parlamentari, coniugando la celerità dell’esame parlamentare con i diritti delle minoranze”. In parlamento c’è un solo modo di garantire al governo tempi “certi”: mettendo nelle mani dell’esecutivo l’agenda dei lavori, con ghigliottine o meccanismi similari. E si assicura celerità solo contingentando i tempi o limitando l’emendabilità.

Ancora una volta, è la mordacchia al parlamento per il falso idolo della governabilità. Eppure, dovrebbe essere chiaro anche ai più miopi che nelle assemblee i problemi sono in genere l’esito, non la causa, di difficoltà politiche, magari sorte nei palazzi del governo.

Per innovare il rapporto fiduciario si richiama la partecipazione di laici e chierici. L’utilità è comunque minima. Fiducia a camere riunite? Poco cambia, se si elimina la base regionale del senato e si assimila il corpo elettorale e il sistema di voto a quello della camera, giungendo a due camere sostanzialmente sovrapponibili. Sfiducia costruttiva? Le crisi di governo – salvo due – non sono mai venute da un voto parlamentare ma da dimissioni volontarie. Limitare la questione di fiducia? Ne verrebbe il blocco della decisione da parte di una maggioranza incapace di sintesi.

Analogo rinvio si prevede per “un’attuazione ordinata e tempestiva dell’autonomia differenziata”. Bene. Ma l’”ordine” imporrebbe di cestinare le bozze Stefani e ripartire da zero. Come si concilia con il “completamento” di cui al programma di governo e con i pellegrinaggi di Boccia? E come assicurare “tempestività” dovendo prima stabilire i Lep o rivedere la distribuzione territoriale delle risorse? Viene il dubbio che i capigruppo non abbiano familiarità con le carte.
Azzariti su queste pagine lancia un appello per salvare il parlamento, ed è giusto. Ma si può dubitare che siamo ancora in tempo, con i guasti provocati prima da Renzi e poi da M5S. Forse, ci vorrà una ri-generazione, anzitutto di soggetti e di cultura politica.

Al momento, tornano in campo gli apprendisti stregoni, cui per l’occasione si aggiungono altri che non sono stregoni e nemmeno apprendisti, ma solo garzoni di bottega.