Il memorabile Album di famiglia – che fu pubblicato da Guanda nel 1990, si direbbe significativamente a chiudere un decennio e a inaugurarne un altro per pezzo di un portato emotivo e simbolico esemplare – ricordo che si apriva con una dichiarazione di poetica nella quale Renzo Paris (Celano, classe 1944) rivendicava per sé la nobile ascendenza o, se vogliamo, la pratica che tutto deve all’occasione di una poesia «scritta per caso, per un fortuito / incontro» ad esempio amoroso o amicale, per una cena, un capodanno, un corteo politico, uno sguardo svelto della passante, una polemica, uno scatto di risentimento, un’invettiva. Di una poesia, in altri termini, «senza progetto», dunque libera e «ladra», nutrita di ogni sorta di alimento, fosse pure povero e spurio, raccattato all’angolo di una strada nel gran teatro di Roma, torsolo di vita felice, di festa, coralità e dono conviviale, sebbene nella malinconia degli addii e dei conti non saldati e nel desiderio di fermare il tempo, quel tempo preciso e irripetibile. In quel prologo, Paris ricordava i nomi di Catullo, Tibullo, Properzio, Sandro Penna. Ma quel libro – ora, dopo tutto, possiamo constatarlo senza tema d’errore – non sigillava per sempre uno o due decenni, bensì e piuttosto una stagione o addirittura un’epoca, segnando in sostanza la fine di un bellissimo sogno fatto a occhi aperti.

Non che Paris, da lì in avanti, abbia abiurato nulla rispetto alla propria poetica. Non che si sia arreso. Ha dovuto invece prendere atto di una mutazione, di uno scarto irrimediabile, di un doloroso passaggio esistenziale e collettivo. Il fumo bianco (Elliot, pp. 136, euro 17,50) – il nuovo libro che raccoglie le poesie scritte nel corso di oltre un ventennio, com’era accaduto per la raccolta precedente – segnala, per colui il quale si era voluto definire (insieme alla sua generazione e ai suoi compagni di cammino) come un ragazzo a vita, il tempo del disincanto e della solitudine ovvero della fine della comunità e del convivio, degli «amori finiti» definitivamente. È, qui, adesso, almeno l’eternità come desiderio a essere invocata come l’ultima e forse illusoria forma di resistenza («Non sono né giovane né vecchio, sogno / come un demente, queste due età infinite, / immerso nel secchio del vino delle aurore, // in un tempo bambino. Sono vecchio, sono / vecchio, eccomi pronto per le sterminate / eternità») o come l’impensabile inaugurale fase di un nuovo inizio, di un tempo tutto da trovare, seppure minaccioso («Mi scuso se ho perduto l’antico gioco // dei versi, se ho la testa confusa e mescolo / Catullo e Massimiano dentro un verso / di Persio la cui scorza sonora quel grande // imitò. Alle sudate carte d’un tempo / mi riallaccio quando mi accorgo / di scivolare su una lastra di ghiaccio // che si assottiglia a ogni nuovo raggio»). Come si vede, in questo libro che è un trionfo di terzine e che l’autore preferisce definire un «romanzo in versi», gli esiti non sono diversi, per qualità e rilevanza, da Album di famiglia.

Semmai diversi ne risultano la cifra e il colore, così addossati a un sentimento di lutto, di assenza, di scabra e desolata visione del presente – ché già nel titolo, di ciò, se ne alza abbrunato vessillo, essendo quel fumo bianco la polvere che s’è levata nel mentre crollavano le case e le chiese dell’Aquila, e molte vite si spegnevano in quella notte del 2009. Ora è come se quella materia volatile posasse a coprire tutto, tranne appunto la memoria. La memoria intanto di sé bambino che, persino a Helsinki, crede (così scrive) di rivedere «le nevi / antiche della mia Marsica» e di ritrovare «i tonitu, i miei dispettosi mazzamurelli» e poi, o insieme, quella di chi ci ha salutato per sempre, i poeti, gli amici scrittori, i maestri.

Come nel bellissimo «Testamento», che vale la pena riportare: «Ho lasciato Sandro Penna a Prima Porta, / a Casarsa Pier Paolo Pasolini, Elsa sul mare / di Procida, Alberto al Verano, qua vicino. // Amelia e Dario al cimitero degli inglesi. / Scrittori e poeti della mia giovinezza / hanno raggiunto la valletta dell’Amore, // lasciando in pegno a Renzo Paris le loro / affilate lingue della vita. E io, fino a quando / nel ricordo vivrò, fino a quando potrò // dire di averli conosciuti, di averli amati?».