Sembrerebbe un’operazione quasi fuori del tempo Paradise di Andrej Konchalowskij, arrivato nel 2016, l’anno del definitivo “Austerlitz” di Loznitsa che si fa opportune domande su certi viaggi turistici ai cancelli dei campi per fotografare se stessi e avere così la prova di essere vivi. Preceduto da un lungo elenco di film sull’Olocausto Konchalowskij si ferma a farci riflettere sull’autentico significato “illustrativo” di queste opere.
In particolare il nazismo è stato a lungo trattato dal cinema dei paesi dell’est come un genere che tendeva a parlare chiaramente del tempo presente, della situazione di controllo capillare ed eliminazione della dissidenza, un genere ben definito, più che di rievocazione o salvaguardia della memoria. Oppure nel cinema tedesco è spesso occasione di mettere in luce vaghi bagliori di resistenza. O ancora ha avuto anche effetti consolatori e solo le opere più eccentriche e meno rievocative hanno ancora senso (pensiamo a Memorie. In viaggio verso Auschwitz di Danilo Monte del 2014).

Nel caso di Paradise, fin dal titolo ci si riferisce alla costruzione del paradiso in terra che non esisterebbe senza l’esistenza di un analogo inferno. La specialità di Konchalowskij è afferrare lo spettatore e trasportarlo con un tocco travolgente sia che si trovi in una casa di matti o nella casa di campagna della contadina Asja, nel parlatorio di una prigione e perfino quando intorno sembra esserci il nulla come nel recente The Postman’s White Nights.

In Paradise ciò non avviene, il racconto e il tono sono algidi, anche quando irrompono nei personaggi fervore, ansia, attesa e delusione tutto in una volta. Ancora quel sottotesto ci viene in mente. Ci suggerisce di tenerci a distanza dall’intreccio, guardare oltre, ad esempio al presente, tempo di fondamentalismi da riconoscere e neutralizzare.

Il film racconta un aspetto comune della mente umana tendente al conformismo quotidiano anche se parla di tempi non così lontani da averne ancora orrore. I tre protagonisti principali, uomini europei del secolo scorso (e si parla non a caso nella versione originale del film francese, tedesco, russo, yiddish), sono persone la cui normalità confina con il male come il funzionario collaborazionista di Vichy che si direbbe un sosia più in carne di Hitler, che timbra arresti e ordina torture nella tranquilla routine tra il déjouner e il dîner, il militare di nobile casata tedesca che ha perso tutto salvo la fede nel Fuhrer, inviato nei lager a controllare entrate e uscite di denaro intascato illecitamente, contro l’efficienza precisamente misurabile del massacro.

E poi l’aristocratica russa (la notevole Yuliya Vysotskaya, già protagonista in La casa dei matti) esiliata a Parigi che precipita nel vortice della storia. Ma non c’è scampo, oltre ai tribunali sulla terra esistono anche quelli celesti di fronte al quale ognuno è tenuto ad esporre colpe e attenuanti. In alcune scene “ultraterrene”, la Toscana in estate, si fa ancora più notare la distanza dell’autore, come per prolungare il tempo della riflessione (e il bianco e nero alimenta questa intenzione), perfino quando mette in scena stereotipi del genere perché siano riconoscibili.

«Penso che il tema dell’olocausto è stato così banalizzato, che oggi vedere 200 persone in pigiama a righe è come vedere il Nabucco, soprattutto in un film a colori. Non volevo fare un film sull’olocausto ma sulla cattiveria, perché la natura umana è sempre cattiva, il male nasce ogni giorno e in ogni epoca. La gente fa il male pensando di fare il bene: Savonarola, Giovanna d’Arco, la seconda guerra mondiale, i bombardamenti in Iran, Iraq, Serbia sono stati considerati atti di democrazia e libertà» diceva il regista a Venezia 2016 dove ha vinto il Leone d’argento per la regia.