Non è stato un pranzo di gala l’assemblea dell’Altra Europa con Tsipras che si è svolta a Bologna il 17 e 18 gennaio. E neppure solo un «evento», come, invece, aveva preventivamente deciso il gruppo cui ne era stata affidata la preparazione. È vero, non si è potuto votare, né presentare mozioni, ma di sicuro la parte simbolico-rappresentativa non è stata l’unica, né quella politicamente preponderante.

Era inevitabile che, nonostante le rigide precauzioni, vi si riversassero sia il desiderio di discutere vis-à-vis, dopo gli estenuanti dibattiti virtuali; sia le divergenze che attraversano questo pur giovane aggregato politico.

La lettura che ne dà Riccardo Chiari sul manifesto del 18 scorso mi sembra una semplificazione. I problemi emersi nell’assemblea – riflesso, in realtà, di contraddizioni che agitano L’Altra Europa fin da dopo le elezioni e dell’irrisolta questione delle regole democratiche – sarebbero riconducibili, secondo Chiari, al «bizantinismo» della sinistra italiana e alla sua incapacità di darsi un leader.

Eppure uno dei temi intorno a cui vi sono orientamenti diversi è giusto questo: se sia fondato e auspicabile che l’unità politica e il successo di una formazione di sinistra (libertaria, mi permetto di aggiungere) si conseguano grazie al carisma miracoloso di un leader.

Un nodo, questo, tutt’altro che bizantino, echeggiato nel dibattito e niente affatto risolto: ad aprire e chiudere l’assemblea sono stati due uomini, nonostante la proposta di alcune/i di affidare l’intervento conclusivo a Daniela Padoan, ex candidata e portavoce di Barbara Spinelli.

La questione di genere non è l’unica, né la più acuta, delle diatribe e debolezze dell’Altra Europa.

Per esempio, per quanto numerosa, l’assemblea era quasi omogeneamente «bianca». Il che mostrava plasticamente che, nonostante gli ottimi esordi, oggi non sono valorizzati a sufficienza i temi dell’immigrazione, dell’asilo, della lotta contro il razzismo, della necessità di trascendere la «preferenza nazionale» (sto ironizzando) per divenire una formazione «meticcia».

Questa debolezza, a sua volta, è in singolare contrasto non solo con la presenza nell’AE di intellettuali e attiviste/i antirazziste/i, ma anche con l’opera svolta da Barbara Spinelli.

Da europarlamentare, Spinelli ha posto al centro della sua attività (anche del suo attivismo, si potrebbe dire) giusto i temi che ho citato; e ciò in rapporto con esponenti dei movimenti per i diritti dei migranti e dei rifugiati.

Solo in tal senso è possibile qualificare come «basista» (cito Chiari) il suo intervento, ma è riduttivo sostenere che Spinelli «dà voce a un gruppo di comitati locali».

Una frase che, oltre tutto, resta oscura se si omette d’informare che all’assemblea si è giunti con due manifesti, Siamo a un bivio e Noi, l’Altra Europa, e che nessuno sforzo è stato fatto per unificarli e ottenere una sintesi superiore.

Il secondo manifesto è l’esito, in primis, delle divergenze intorno all’esperienza elettorale dell’Altra Emilia-Romagna, L’Altra Calabria e così via. Pur coronata, nel primo caso, da un risultato dignitoso, la scelta non ha trovato appoggio unanime, tanto che in Siamo a un bivio non ve ne è traccia. Una tal rimozione rivela quale sia una delle poste in gioco: se il proporsi in alternativa al Pd si spinga fino a escludere alleanze elettorali, a partire dalle prossime regionali.

A sua volta, questo tema rimanda a un altro nodo, questo sì centrale: quale sia il grado di autonomia dell’AE rispetto agli apparati di partito e ai loro progetti di «casa comune»; se le esperienze di Syriza e Podemos non debbano valere anche come modelli di pratica politica.

In tal caso, uno dei compiti principali sarebbe quello di costruire rapporti con chi cerca di contrastare gli effetti sociali delle politiche di austerità e l’offensiva contro le «classi pericolose»: sindacati di base, associazioni, centri sociali, movimenti per la csa e per i diritti degli «alieni», solo per citarne alcuni.

Sarebbe, questa, la scelta più coerente con lo spirito originario dell’Altra Europa con Tsipras.