Non è un anniversario da lasciare solo agli storici quello dei 50 anni dal terremoto del Belice. Un sisma che tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 sconvolse la Sicilia Occidentale causando centinaia di morti e distruggendo interi paesi.

Oggi sono proprio le immagini di quei centri abitati tutt’ora abbandonati e il degrado di infrastrutture e palazzi, di quelle che adesso verrebbero chiamate new town, a sbatterci in faccia il fallimento fisico, economico e sociale della ricostruzione.

Non possiamo soprattutto accettare che un Paese come l’Italia martoriato nel corso della sua storia da un numero incredibile di terremoti e alluvioni, veda ancora prevalere un misto di fatalismo e sorpresa nell’affrontare le fragilità del suo territorio.

Le ragioni del naufragio della ricostruzione nel Belice sono le stesse dell’Irpinia e di quella, ancora in corso, a L’Aquila, e sono alla base delle enormi difficoltà nella gestione delle casette e delle macerie ad oltre un anno dal terremoto che ha colpito parte del Centro Italia.

Se mettiamo in fila la storia delle ricostruzioni dal 1968 ad oggi troviamo ogni volta soluzioni e regole diverse, commissari straordinari, risorse pubbliche assegnate attraverso criteri differenti. Stessa cosa per le alluvioni e soprattutto senza mai una valutazione per capire i risultati della spesa pubblica e l’efficacia degli interventi, o per verificare il numero di persone ancora fuori dalle case. Possibile che si debba sempre ripartire da zero?

Con decreti che fissano ogni volta regole nuove per la gestione dell’emergenza, deroghe e ordinanze per lo smaltimento delle macerie, comportandosi come se fosse la prima volta che ci si trova a fronteggiare un terremoto o un alluvione. Eppure dovrebbe essere normale che, a parte la gestione dell’emergenza da parte della protezione civile – che rimane un patrimonio di questo Paese per capacità di intervento e per lo straordinario tessuto di volontariato coinvolto – esista una struttura di riferi mento per affrontare la ricostruzione. Ossia un organismo dello Stato che possa accompagnare i Sindaci nell’individuare le procedure più efficaci, nel gestire gli interventi e nell’accesso alle risorse.

Chi si candida a dire basta a questa logica in un Paese che sa di dover convivere nei prossimi anni e in larga parte del suo territorio con fenomeni di questo tipo? Ad esempio scegliendo le priorità come quella che riguarda il rischio sismico nelle scuole, visto che il 41% del patrimonio si trova in zone a fortissimo e forte rischio sismico, e dove però le risorse stanziate in questi anni per l’edilizia scolastica hanno riguardato, solo in una percentuale ridicola, interventi di messa in sicurezza anti sismica. Un’altra grande priorità riguarda le città a maggior rischio idrogeologico, ossia quelle dove nei prossimi anni è prevedibile che si verificheranno gli impatti più rilevanti in una prospettiva di cambiamenti climatici.

Se si guarda a quei territori dove in questi anni si sono registrati i danni più rilevanti di allagamenti, frane, esondazioni, si comprende come l’Italia non sia tutta uguale di fronte ai rischi climatici: alcune città come Genova, Messina, Roma e Olbia e alcuni territori corrono pericoli maggiori. Ed è da qui che si deve partire con interventi in forma nuova, perché pensati per adattare quei luoghi ai cambiamenti del clima. Individuare le priorità di intervento, accelerare gli interventi di prevenzione, proporre un modello davvero nuovo per la ricostruzione.

Sono queste alcune delle grandi sfide di un Paese che si trova a meno di due mesi dalle elezioni politiche. Un approccio di questo tipo risulta utile anche per imparare dalle esperienze positive che ci sono state nella Penisola e per innovare le forme di intervento, creare lavoro e competenze. Ad esempio per quanto riguarda la gestione delle macerie è possibile che nel 2018, di fronte a tonnellate di macerie ancora presenti nelle aree del terremoto, non si riescano a fissare regole che impongono il riutilizzo di quei materiali, opportunamente separati e trattati, per tutti gli usi compatibili nella ricostruzione?

Nella logica dell’emergenza la risposta che si riceve è sempre negativa, ma poi a beneficiare di queste gestioni opache sono i soliti interessi di chi gestisce cave e discariche. In un dibattito politico in cui tutto si confonde potrebbe trarre vantaggio proprio chi si candida a mettere al centro della discussione politica questi problemi, che oggi sono riconosciuti come importanti dai cittadini, e un cambiamento che punti su trasparenza e responsabilità.

Ad esempio con una grande operazione verità sugli errori della ricostruzione nel Belice, per capire dove si è sbagliato e per spiegare ai cittadini dove sono andati e continuano ad andare gli introiti dell’accisa introdotta dal Governo Moro 50 anni fa. Perché nel paradosso di questa storia c’è che ancora oggi nella benzina c’è una specifica tassa destinata alla ricostruzione di quella valle siciliana il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.

* vicepresidente di Legambiente