Va alle urne per le presidenziali, domenica, anche Haiti: senza troppe speranze di risollevarsi dal baratro per merito dei quattro candidati più accreditati nella corsa alla presidenza, su 54 in totale. Si tratta dell’oppositore Jude Celestin, della Lega alternativa per il progresso e l’emancipazione haitiana (Lapeh), primo nelle intenzioni di voto (un po’ più del 30%). Promette di creare posti di lavoro, promuovere le attività agricole, risolvere il drammatico problema dei bambini di strada e migliorare la cultura del paese. E’ seguito da Jovenel Moise che rappresenta il partito di governo del presidente Michel Martelly. E poi c’è un candidato di sinistra, Jean Charles Moise, e Marysse Narcisse. Con molta probabilità, però, ci sarà un secondo turno, il 27 dicembre. Lo scorso 9 agosto, a causa di brogli e violenze, sono state sospese le parlamentari in 10 dipartimenti dell’isola, ancora stremata dal terremoto del 2010, poi dal colera e sempre sotto una doppia tutela: della miriade di ong che proliferano sui proventi della ricostruzione e della Minustah, la missione Onu, prorogata di un anno. Le difficoltà di spostamento di una popolazione poverissima complicano ulteriormente il quadro.

Uno dei candidati alla presidenza, Jean-Baptiste Chavannes, che correva per un’organizzazione equivalente a Via Campesina, si è ritirato, denunciando un «golpe elettorale» giudato dal Core Group, un’organizzazione ideata dalle Nazioni unite e composta da organizzazioni internazionali e paesi stranieri (Usa, Canada, Ue, Osa, Onu e anche Brasile). Chavannes ha il sostegno di 60.000 contadini di Via Campesina, che chiedono un processo elettorale scevro da interferenze anche dei «paesi amici» . In questi anni, i paesi progressisti dell’America latina, hanno cercato di spingere Martelly ad adottare progetti sociali e a svincolarsi dagli aiuti condizionati. Ma per Haiti non è ancora il momento di voltare pagina.