Il palmarès della giuria berlinese, presieduta da Darren Aronofsky è uno dei migliori negli ultimi anni festivalieri. I giurati della Berlinale numero 65 infatti (insieme al regista di Cigno nero, Daniel Bruhl, Bong Joon-ho, Martha de Laurentiis, Claudia Lllosa, Audrey Tatou, Matthew Weiner) hanno scelto infatti film migliori del festival, quelli che hanno espresso come segno d’autore indipendenza e riflessione sul cinema, e insieme vitalità nel confronto col proprio tempo.

Taxi di Jafar Panahi è un film straordinario, e non solo per la condizione da recluso del regista iraniano condannato non girare più film – che ogni suo nuovo lavoro trasgredisce. È che Panahi nel «violare» i limiti impostigli dal regime iraniano interroga il (suo) fare cinema e le possibilità oggi di confrontarsi con la realtà e di un cinema politico, attuando nel suo dispositivo – stavolta il taxi – una messinscena di fortissima realtà.
«Invece che lasciarsi distruggere e farsi invadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore per il cinema» ha detto Aronofsky consegnando l’Orso d’oro alla nipote di Panahi, Hana, anche tra i protagonisti di Taxi, ragazzina scanzonata e impertinente e studentessa di cinema che pone allo zio famoso le domande su come fare un film rispettando la legge.

E questa tensione dell’immagine è la stessa che attraversa gli altri film premiati: El club di Larrain come Il bottone di perla di Guzman (premio per la sceneggiatura, giustissimo visto che la scrittura del film è preziosa e profondamente visiva nel modo di costruire la sua investigazione emozionale), entrambi cileni a conferma della vitalità di quel paese.

L’epopea di Radu Jude nel bianco e nero del suo Aferim! come i corpi di Body filmati da Malgorzata Szumowska, entrambi migliore regia. O la ragazza maya di Jayro Bustamante nel suo bell’esordi Ixacanul (uscirà per Parthenos/Lucky Red) a cui è andato l’Orso d’argento per la migliore opera prima.