Per una lingua nuova e sconosciuta, l’interpretazione e la decrittazione possono avvenire solo grazie al confronto con un’altra meno oscura anche se non ancora decifrata. Così è per le «trascrizioni» di Giorgio Luzzi, Vedovella celeste e altri racconti (Carabba, pp. 239, euro 16): usiamo la parola «trascrizioni» perché ci troviamo di fronte a resoconti unilaterali, lucidi e necessari – sì è un testo che fa tornare necessaria la scrittura – e sfocate istantanee dove i protagonisti veri e propri sono gli stati d’animo d’un poeta che è tra i più importanti della nostra generazione. Che cosa è la prosa per chi scrive versi, e solo ai versi s’affida? Altro non è che la fiducia in un dono di violenza; la violenza nell’accettare di misurarsi con le parole consumate, con le storie massacrate dalle mitologie seriali, con la gazzetta quotidiana del ferro e del fuoco della morte affluente… Insomma con quella perdita di senso della necessità di dover testimoniare che fa di ogni scrittura possibile un non-racconto.

GLI UNICI CONFRONTI dunque che ci vengono per decifrare questi testi allucinati e rigorosissimi, al limite tra surrealismo e razionalismo cosmico sono, per quel che conosciamo, lo stupendo L’assassinio di un ranuncolo di Alfred Döblin e La passeggiata di Robert Walser, entrambi, non a caso, del millennio passato; non a caso in questo febbrile rinominare a zonzo, sapendo che il nome è la supplenza delle cose, nell’animazione del mondo minerale e vegetale, nel dar voce ai contorni nascosti, come alle pianticelle vilipese e marginali, anche qui si ricorre ad un universo botanico di fiori d’altura, alla «vedovella celeste» o al cirsio lanoso o alla Parnassia palustre. È il mondo che conosce bene l’agronomo semiprofessionista salvatore di fiori ancora in vita, Gravius, dal nome che ha il peso di un soffio invadente ed è protagonista del primo non-racconto. È un’anima in pena, sospesa tra il sogno dell’arcaico e la bruciante consapevolezza che ogni abbandono della prima vita rende assenti; del resto non è stato così anche per Arthur Rimbaud? Alla fine pronto a far tacere le vocali dei versi per immergersi nel più urgente e feroce pianeta dello sfruttamento e dell’inconfessabile tratta di corpi neri e armi? E appena Gravius svanisce, ecco il secondo non-testo «Chiuso il martedì» che vi precipita accanto come un sasso liberato da una china: la sua intenzione narrativa è accendere i giorni e le ore dentro una trama appena avvertibile di incontri e saluti, dialoghi impossibili in un improbabile sviluppo futuro, per illuminare la penombra di come e dove abbiamo mai «avuta» e conquistata una persona; l’atmosfera è sempre vagante tra i confini montani dell’Europa, nei luoghi eretici dove papi, re e soldataglia hanno vilipeso gli abitanti, sempre correndo per una fuga lassù, in una zona di vita con la sua «felicità immancabilmente altrove», mentre i corpi sperimentano il desiderio e si concedono frettolosi e altrettanto in fretta svaniscono in azioni abitudinarie.

ECCO L’ACCOSTAMENTO a Robert Walzer, alla sua scrittura nomade, solitaria, dispersa negli incontri più casuali ma capace, con la passione, di recuperare il non-funzionale, l’inutile, per affermare che il caso è la stagione della vita più sorprendente. Ma c’è di più nei non-racconti del poeta Giorgio Luzzi. C’è l’intenzione divertita di rubare gli accadimenti. Una prova magistrale di questa volontà è «Dune», forse il testo più immaginario. È come tutti gli altri un viaggio tra confini montani e fluviali, itinerari turistici secondari ma utili a scoprire che l’attraversamento inventato per la discesa nella conoscenza è solo interiore dove «l’acqua del tempo scivolava peregrina defluendo all’interno di caverne psichiche, di una Postumia ossessiva zeppa di oscuri relitti…», si tratta di una «Postumia psichica, la cavità più grandiosa, più telluricamente teologale, che mai si fosse trovata a coincidere con un essere femminile»: tra le dune inventate, con ironia e dialoghi mai scontati la donna che accompagna il vagare senza meta del protagonista si invera nella voglia di fotografare e alla fine la foto, siamo agli antipodi del selfie, esplode e in dissolvenza sparisce non l’immagine ma lei stessa.

MA L’IRONIA ESPLODE ne «L’incomparabile Banderas», dove suggerisce l’ipotesi che, organicamente, «la vita a due si fondi sull’intreccio tra pochi squilli alcune volte al semestre e lo sblocco di deflusso della resurrezione viscerale quotidiana». Viaggio allo zero è il testo insieme più visionario e razionale della raccolta; il lettore non aspetti duelli, rapimenti, naufragi, c’è sempre invece un viaggio in disparte su una ferrovia secondaria per trovare un angolo di locande quiete per rileggere «Il muro, La Nausea e L’Età della ragione di Sartre», per impedire che nella fine del mondo quel patrimonio vada disperso; verso l’ansia dello zero, che è in matematica il numero più complesso, perché «alle cifre enigmatiche fa da Viagra, mettetelo al punto giusto e fa da moltiplicatore», «Zero», la cui rotondità e potenzialmente abitabile e il cui etimo deriva da sifr, zefiro e l’assonanza è netta tra euro, eroe, zero… basta pronunciare deux zero; e riecco nel transito le primule, le viole, i gelsomini, e riecco Rimbaud scovato sedicenne in una periferia mineraria, tra «tettone» accondiscendenti.

I DIALOGHI REPRESSI nel non far accadere nulla, diventano pressanti intenzioni di parola nei due ultimi non-racconti, due gioielli del narrare: in essi l’autore sembra immedesimarsi più che negli altri, e sembrano intensamente più liberatori. «Chiamatemi Marino» è la storia semi-avventurosa di un barbone per modo di dire: figlio di una inserviente di navi da crociera e di un comandante in seconda, da questi abbandonato e povero in canna con la madre fino a venti anni riceve un’improvvisa eredità; così, diventato non più povero si ripropone ai margini della città accattonando parole perché «c’è una vita verbale nella vita biologica, ed era una lingua da imparare». Infine «Maruska», la ragazza slava incontrata per caso e per caso promessa sposa dal padre padrone a Infausto Bisostri – qui il nome si riempie di gravità – , e invece del ricatto slavo di non ben identificati «zingheri» la bella Maruska dirà nel suo incerto lessico, ponte precario di culture, che non affida la sua vita a nessuno e che vuole decidere per proprio conto.

Ecco che cosa sono le proposte di Vedovella celeste: non-racconti per misurare la durata della distanza che separa istante da istante, un orologio artigianale di parole contro la meccanica del presente seriale.