C’è una parola insolita che ricorre con cadenza regolare tra le pagine di Nel mondo a venire, titolo meravigliosamente infedele con il quale Sellerio propone ai lettori italiani 10.04, secondo, acclamato romanzo di Ben Lerner (traduzione, davvero eccellente, di Martina Testa, pp. 292, euro 16,00). Si tratta del termine «propriocezione», mutuato dalla neurologia, che indica la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli, anche senza il supporto della vista. Fondamentale al fine di mantenere il controllo dei movimenti, la propriocezione è una virtù imprescindibile, per il protagonista di questo strano oggetto narrativo, sospeso tra realtà e invenzione della realtà, tra passato e futuro, tra morte e vita. Riconoscere in ogni istante dove ci si trova e raggiungere una sorta di precario e miracoloso equilibrio in una dimensione spaziotemporale che sembra aver perso il proprio continuum: questo imperativo etico e filosofico, dal quale dipende la possibilità stessa di un mondo a venire, è la sostanza più profonda di un libro che ondeggia sinuoso tra più trame e vicende, che divaga, si espande e si comprime, oscilla tra derive autoriflessive, frammenti narrativi di grande potenza, divagazioni sull’arte e sui suoi mille modi di confrontarsi con l’instabilità del reale, nell’ostinato tentativo di cristallizzarla in un oggetto, o nella pagina scritta.

Nel mondo a venire – come del resto il primo e già promettente romanzo di Lerner, Un uomo di passaggio – è, in un certo senso, un libro senza trama, nel quale l’intreccio si costruisce attraverso un cumulo di elementi che appaiono irrilevanti o sconnessi e che la è coscienza centrale dell’Io narrante a tentare di ordinare e organizzare in una sequenza interiore, trasformandone o manipolandone il senso al solo scopo di rendere quegli elementi pienamente funzionali ai suoi esercizi di propriocezione. L’innominato protagonista – che coincide in ampia misura, ma non in toto, con l’autore, così come con Adam Gordon, personaggio centrale e narratore di Un uomo di passaggio – si è costruito una reputazione come poeta e critico d’arte, ha una cattedra universitaria a Brooklyn, dove vive, e ha pubblicato da poco, per un piccolo editore, un romanzo accolto con grande favore, anche se non con grandi vendite. Sull’onda di questo succès d’estime, ha venduto al New Yorker un racconto che la sua agente ha proposto a diversi editori come se fosse il nucleo di un nuovo romanzo, fino a strappare un anticipo spropositato.

Nel frattempo Alex, la migliore amica del protagonista, gli chiede di aiutarla a concepire un figlio attraverso la fecondazione intrauterina, e nello stesso torno di tempo al narratore viene diagnosticata una malformazione congenita dell’aorta che, ove dovesse aggravarsi, lo costringerebbe a un delicato intervento. Il presentarsi in contemporanea di due prospettive diametralmente opposte – la morte e il prolungamento di sé attraverso la paternità – innesca una riflessione sul tempo, sulla presenza del passato e la proiezione nel futuro che segnano la quotidianità di un presente incerto e instabile. E le peregrinazioni del protagonista in una New York resa con straordinaria, imaginistica vividezza si trasformano in un esercizio da flâneur nel quale in gioco entrano al contempo il destino personale dello scrittore – e per suo tramite dei vari esemplari umani che affollano le vie della città – e la possibilità per la letteratura di riprendere a raccontare il mondo, facendone propria e riproducendone la perenne precarietà.

Se in Un uomo di passaggio le ansie e le incertezze di Adam Gordon, sospeso tra la coscienza oscillante del proprio talento poetico e la sensazione di essere solamente un impostore e un plagiario, subivano una scossa forse definitiva con gli attentati alla stazione ferroviaria di Madrid, e l’irruzione brutale di una tragedia collettiva, in Nel mondo a venire le vicende narrate si collocano nell’intervallo tra due uragani che colpiscono New York nel medesimo anno e che creano una strana atmosfera ovattata e subacquea, di attesa, sospensione e inquietudine, prefigurando lo scenario di un’apocalisse sempre vicina e sempre rimandata, acquattata nel futuro come un predatore in attesa, ma anche capace di segnare il presente, trasformando i rapporti umani, le aspettative di vita, le aspirazioni e gli obiettivi.

Più che un romanzo, dunque, questo di Lerner è un oggetto narrativo nel quale realtà e finzione, poesia e prosa, descrizione e illustrazione (il libro è dotato, come già Un uomo di passaggio, di un apparato iconografico che risulta totalmente organico alla storia e alla scrittura) coesistono e si armonizzano per forza di stile e ragionamento. All’invito della sua agente, che lo esorta in questi termini: «Ricordati solo che questa è la tua occasione di raggiungere un pubblico molto più vasto», e che sembra alludere a un romanzo che sviluppi «una trama chiara, geometrica», descriva «le facce, anche quelle della gente al tavolo accanto», e garantisca «che il protagonista subisca un drammatico cambiamento», il narratore-autore oppone un’idea di libro nel quale a subire un cambiamento sia solo la sua aorta, dimodoché, alla fine, tutto sia «uguale, solo un po’ diverso». Un’idea che si traduce nella determinazione di «sostituire il libro che avevo proposto all’editore con il libro che state leggendo ora, un’opera che, come una poesia, non è una storia vera né di fantasia, ma un guizzare fra le due cose». Il racconto del New Yorker non si dilaterà più, dunque, «in un romanzo sulla frode letteraria, sulla falsificazione del passato, ma in un vero e proprio presente vivo di molteplici futuri».

La falsificazione del passato, la sua reinvenzione attraverso il plagio, era già stata un tema portante di Un uomo di passaggio, e anche in questa seconda opera narrativa di Lerner occupa uno spazio, ma tutto residuale, nelle false lettere che fanno la loro comparsa in alcune pagine del libro, autentici plagi dello stile epistolare di alcuni grandi poeti, primo fra tutti Robert Creeley. Ma Nel mondo a venire vuole essere qualcosa di diverso: una riflessione sui futuri che si affacciano nel presente, e lo cambiano; un elogio dell’arte che accetta di accogliere in sé l’indeterminato, ciò che è ancora di là da venire, facendone oggetto di discorso. Sospesi tra poesia meditativa, autofiction, racconto, riflessione filosofica, lo stile e il progetto di Lerner hanno i loro precedenti più ovvi – e subito notati dalla critica – in autori europei come Sebald o Carrère, inventori di pastiche narrativi non meno radicali. E tuttavia, nell’esaltazione consapevole, programmatica e innovativa di un’immaginazione sospesa tra arte e filosofia, cognitivismo e neuroscienza, così come nella capacità di mettersi in scena come autore e insieme differenziarsi da se stesso, oggettivarsi dentro la storia, questo romanzo deve tanto anche al Richard Powers di Galatea 2.2 o di Orfeo.

Lerner sembra volerne ripercorrere le tracce e la ricerca estetica, forse con minor rigore e maggiore varietà di toni e registri, spaziando tra comicità e piccoli e grandi drammi con una leggerezza e ampiezza di respiro che hanno dell’ammirevole, e che gli sono valsi l’omaggio di autori importanti, da Franzen a Eugenides. Resta da chiedersi quale sarà il suo prossimo progetto, e se sia lecito attendersi un ulteriore passo avanti verso uno stile e una grammatica del racconto sempre più depurati da orpelli e da tutto ciò che non sia propriocezione.