Arti e mestieri. La musica e l’abilità che ci vuole anche nel porgerla. Si può riassumere così la missione di Iomma (Indian Ocean Music Market), ciclo di incontri professionali, workshop e showcase giunto alla 6a edizione nella “capitale del sud” di Réunion, che coinvolge anche altri centri urbani dell’isola, teatri, locali polivalenti e la nuda piazza, dove l’unica concessione alla paranoia terrorismo è quella di impedire eventuali irruzioni di Tir in stile Nizza con altri Tir, a protezione dei varchi.

I concerti sono gratuiti e l’audience non potrebbe essere più intergenerazionale, mentre durante il giorno operatori e musicisti da una ventina di paesi bagnati dallo stesso oceano si affannano a intrecciare esperienze, affinando le armi di fronte alle difficoltà oggettive che incontrano nelle rispettive realtà, nel confronto con governi che non investono un soldo nella sanità, figurarsi nella cultura. Non tragga quindi in inganno la serenità più che apparente con cui si succedono conferenze e incontri one-to-one, né l’opulenza della vetrina di mini-concerti allestita allo scopo di nutrire e orientare l’immaginazione dei direttori artistici: la differenza qui la fanno i fondi europei e quelli regionali francesi, visto che dopo il referendum del 2009 Réunion è molto più di un dipartimento d’oltremare. Oltre al frusciare degli euro, lo ribadiscono i militari formato leggi speciali che sudano copiosamente dentro le loro corazze intorno all’aeroporto di Saint-Denis.

Una Francia tardo-coloniale e insoumise al tempo stesso, pronta a difendere con le cannoniere la «zona economica esclusiva», salvo poi votare in massa per Mélenchon (il primo turno delle presidenziali lo ha vinto lui, tallonato da Le Pen) e per quello che si potrebbe definire il suo ologramma elettorale, visto il modo in cui il leader della sinistra francese ha scelto di (s)materializzarsi sull’isola durante la campagna per l’Eliseo.

Nientaffatto «sottomessa», per entrare nel merito, suona la musica in arrivo dalle vicine Mauritius. Con la debordante energia dei Mauravann che riaggancia la storia di questo presunto paradiso tropicale all’era infernale dello schiavismo e la determinazione con cui una ragazza poco più che ventenne, Emlyn, denuncia il cinismo dell’industria turistica globale e la corruzione di un governo che ha svenduto spiagge e forza lavoro alla logica rapace dei resort di lusso. Bagliori di una primavera mauriziana a venire? «La vedo difficile – risponde quest’ultima con un sorriso amaro -, i problemi sociali sono enormi ma troppe famiglie dipendono dalle pur minime entrate garantite dal turismo. Intanto io porto avanti la mia rivoluzione in musica». Più facile a cantarsi che a farsi, come hanno capito a loro spese i rapper egiziani  e tunisini. Ad ogni modo stupisce come la musica di piccole realtà come questa riesca a trasmettere potenzialità infinitamente superiori rispetto alle espressioni contemporanee di culture millenarie e di immense realtà geografiche comprese in questa macro-area, come l’India o la Cina. Bit of Both e Sukanti & Anushree nel primo caso, gli St.Ol.En nel secondo, non sembrano andare oltre la sterile riproposizione di schemi consunti, svuotati da ogni tensione creativa.

Al confronto anche i ritmi maloya, patrimonio per eccellenza e per grazia ricevuta anche qui dagli schiavi affrancati, siano essi ricondotti all’essenzialità voci-percussioni-danza (il set esplosivo dei Kiltir non ha bisogno d’altro), o sabotati dall’interagire con il jazz e il funk (Kafmaron, Pachibaba e altri), promettono ben altri sviluppi a venire. Anche per la sintonia con l’eclatante biodiversità dell’isola, non avendo per ora l’urgenza di piangere disastri ecosistemici come quello che sta desertificando il vicino Madagascar (ce lo ricorda a tutto volume in Namako la voce di Eusébia, che di per sé tenderebbe piuttosto a celebrare la gioia di vivere e la «buona educazione», come la definisce lei, delle donne malgasce).

Di ben altre diversità narra la presenza di Nakhane Toure, artista sudafricano di Port Elizabeth che si è fatto cambiare la vita in meglio, nell’ordine, dalla regina della musica maskanda Busi Mhlongo, dalla figura di Ali Farka Touré (da cui l’esotico “cognome d’arte”) e dalla rivendicazione della sua omosessualità, che ha appena messo al servizio di un film, The Wound, diretto da John Tengrove, bene accolto al Sundance e a Berlino ma che in Sudafrica gli ha già procurato aggressioni virtuali e minacce fisiche: «Abbiamo una Costituzione molto avanzata, anche sui diritti lgbt, ma purtroppo la realtà è molto diversa…», racconta. Ai due nomi sopra citati aggiunge Prince, Marvin Gaye, Leonard Cohen per i testi, ma nessun modello in particolare sembra gravare sulle sue canzoni. Si presenta in scena con un improbabile kimono xhosa, visibilmente teso sulla base del sospetto che un pubblico appena andato in visibilio per i set precedenti, così vistosamente “africani”, possa restar male davanti al minimalismo introspettivo delle sue canzoni, ai suoni glaciali che escono dal computer, il rumorismo inquieto della chitarra con cui si accompagna, il controsenso di gestire con le mani la pedaliera degli effetti. Saint-Pierre invece sta al gioco e il suo concerto finirà per risultare tra i più apprezzati. Al pari dell’happening della poetessa, attrice teatrale e cantante Kaloune, che maltratta i lamellofoni scoperti da volontaria in Zimbabwe e nobilita il suono delle parole che sceglie con attenzione maniacale, ridendo e saltando di gioia come una bambina ogni qualvolta riceve l’applauso dell’audience. Descrive il paradosso di discendere da schiavi pur senza essere africana, canta il sesso femminile «che dà la forza ma anche la debolezza». E racconta: «La forza della cultura creola sta anche nel modo in cui certe tradizioni, come il maloya, che sembrano dominio esclusivo degli uomini, abbiano in realtà una regia matriarcale».

Nelle partecipatissime conferenze del mattino intanto il dibattito ferve, anche suonando leggermente retrodatato (proprio come le tastiere che infestano il makua-pop del mozambicano Deltino Guerrero): l’hip hop, il nu-soul, l’elettronica che arrivano oggi dall’Africa sono ancora «musica africana»? Per Rashid Abdi Jibril di Roots International (Kenya), che ha gusti ben strutturati ma incoraggia qualsivoglia input creativo arrivi dai giovani di Nairobi, è una domanda senza senso: «Quando un gruppo tedesco fa reggae non stai certo lì a chiederti dov’è la Germania nella sua musica».

Rispetto ai danni provocati negli anni 80 negli studi di registrazione europei, dove i suoni venivano addomesticati ed equalizzati in base a un marcato etnocentrismo rock, i progressi sono palpabili. Gli standard internazionali ora si inseguono al massimo con laboratori in cui si lavora sulla presenza scenica, su come implementare la propria visibilità, la «professionalità», il buon management. Più che produttori di grido si cerca l’intermediazione degli istituti di cultura francesi, che da sempre praticano quel che la Cina sa fare benissimo sul piano economico, in Africa, ovvero mantenere distinto l’ambito politico da quello culturale. Cosa che vale del resto anche per l’orecchio prensile e un po’ paternalista della Sacem (la Siae d’oltralpe), che vigila su tutto quel che risuona allo Iomma: vale forse anche qui il frusto slogan  «aiutiamoli a casa loro». Ma stavolta, se non altro, la musica ne guadagna.