«Nulla è più misterioso del cuore umano». Con queste parole Dino Buzzati presentava il ritratto della ‘belva di Buchenwald’, moglie del comandante del campo di concentramento dove la donna aveva imperversato sui prigionieri con crudeltà indicibile. È l’autunno del 1947. Buzzati assiste al processo, e ne invia la cronaca al Corriere d’Informazione. Il titolo proietta un fascio di luce obliqua su una figura mostruosa: «La belva ha avuto un bambino». Ilse Koch, la «Valchiria vendicativa», ha dato alla luce un maschietto e il cronista imbastisce l’articolo su una apparente incongruità: come possa da una tale criminale venir fuori «una cosa pura e innocente quale un bambino appena nato». La situazione presenta tutti i tratti essenziali del cosmo buzzatiano: l’oscurità dell’animo umano, l’inesorabilità della violenza sugli inermi, il rapporto non consequenziale tra l’orrido del male e l’irrilevanza di quello che orrido non è. Scorre inespressa anche in questo caso la pacata meraviglia dell’osservatore sulla banalità del male.
«La belva ha avuto un bambino» è presente nella raccolta La ‘nera’ di Dino Buzzati (a cura di Lorenzo Viganò, schede storiche di Riva & Viganò, Mondadori «Oscar Moderni», pp. XL-596, € 30,00), che riunisce Crimini e misteri e Incubi, ovvero le due raccolte nelle quali era confluita una selezione degli articoli di cronaca pubblicati tra il ’29 e il ’71, l’ultimo poche settimane prima di morire, in un volume che aggiunge alcuni pezzi esclusi dalla prima edizione del 2002, ma anche appunti e disegni dell’autore, oltre a fotografie e pagine di giornale dell’epoca. Cose tutte che consentono al lettore una visita virtuale nell’Italia del secolo scorso e nella quotidianità drammatica, spesso tragica, degli italiani di allora. Queste cronache però permettono anche di entrare nella testa di un testimone attentissimo, che raccontò i risvolti umani di crimini infernali e seppe rappresentare le vaste zone d’ombra di cui era intessuta la realtà sociale del soleggiato bel Paese: truffe, furti, omicidî.
Entrato a 23 anni nella redazione del Corriere della Sera come cronista di ‘nera’, quasi incredulo di essere riuscito a tanto, continuò negli anni a paventare una sua cacciata, che naturalmente non avvenne mai: fino alla fine avrebbe firmato articoli e racconti, soprattutto per il Corriere della Sera e per il correlato Corriere d’Informazione. Si racconta ancora che il giorno della morte confessò che se gli avessero chiesto in quel preciso momento un articolo, l’avrebbe senz’altro scritto. Estrema riprova dell’etica con cui Buzzati intese l’esercizio del proprio mestiere, che a via Solferino, come in tutti i giornali degni di questo nome, veniva praticato sotto il segno del rigore, dello scrupolo di precisione e della lealtà verso la testata e verso il lettore. La stessa meticolosità con cui Buzzati nel corso degli anni si dedicò alla compilazione di un libro mastro dei crimini, database ante litteram a disposizione dei giornalisti del Corriere (le foto di alcune sue pagine compaiono tra le illustrazioni).
Nella protratta frequentazione del lato sotterraneo, ‘notturno’ e appunto nero, trova fondamento quell’immaginario fantastico, surreale e inquietante in cui si innerva tutta la sua narrativa, anche se è doveroso mantenere una sospensione di giudizio sulla priorità di un elemento sull’altro, come dimostrano, ad esempio, le pagine sul massacro di cui si macchiò Rina Fort, 1946, con il motivo insistito della ‘goccia’ (di sangue), identica alla ‘protagonista’ del famoso racconto «Una goccia», pubblicato però vari anni prima. Da giornalista, da narratore e da disegnatore (le tre attività coesistono per tutta la durata della carriera) Buzzati si metteva sulle tracce del fantastico, quella cosa che, come scrisse Caillois, restava indefinibile, invisibile, pesante ed esistente contro ogni ragionevolezza, e della quale Buzzati scorgeva l’ombra nelle efferatezze della mano umana come pure in quelle della natura.
Anche una lettura corsiva agli esordi del ’29, qui ricompresi, dà la misura dell’occhio clinico del futuro narratore, che con il tempo affina il registro, asciuga la prosa, elide ogni termine anche solo vagamente retorico, e si concentra sul ritmo di una narrazione tanto sobria quanto efficace nell’introdurre il lettore all’evento e avvicinarlo quanto più possibile alla scena. Se pensiamo che la maggioranza di questi articoli è stata redatta quando la televisione era ancora di là da venire o pochissimo disponibile, vediamo che questi pezzi sanno creare immagini vive e dinamiche di quanto accaduto e danno conto di quanto il male, sia esso dovuto all’opera dell’uomo o della natura, inspiegabilmente sia sempre prossimo, appena un po’ più in là di dove arriva il nostro sguardo. «L’altra sera noi eravamo a tavola per il pranzo quando poche case più in là una donna ancora giovane massacrava con una spranga di ferro la rivale e i suoi tre figlioletti»: questo l’attacco del primo degli articoli dedicati all’eccidio compiuto da Rina Fort. Analoghi gli altri, dedicati ad esempio al disastro del Vajont, all’allagamento del Polesine, ai minatori di Marcinelle, dove ad abbattersi senza pietà era stata la mano nera delle forze della natura.
Inviato sui luoghi delle tragedie, il cronista-disegnatore-narratore si confonde tra la folla, tra i fotografi, addirittura è nell’auto delle forze dell’ordine spedite sul luogo del crimine, e osserva ogni cosa in apparenza senza battere ciglio, quadernetto alla mano e orecchie tese a cogliere nelle reazioni e nei commenti dei presenti il riverbero del male. Il suo sguardo indugia sui particolari e la scrittura si snoda lentamente a coprire la notizia in ogni dettaglio: i volti, gli interni delle case che il crimine ha insanguinato o i paesi che l’acqua ha devastato, e assiste muto alla gloria inesorabile delle tenebre.