Bisogna avere il coraggio di vivere intensamente perché, diceva Jannis Kounellis, «le visioni dell’eremita sono condizionate dal suo eremo. Noi possiamo scegliere se andare in quel rifugio, oppure avventurarci per strade più determinanti, incisive». Naturalmente, lui optò per la seconda ipotesi, fin da quando, bambino, sedeva con la madre in riva al mare e lei gli indicava col dito l’orizzonte.
Al Pireo c’erano le navi in partenza e Jannis, che veniva da una famiglia di marinai, si sentiva un po’ navigatore anche lui. Non poté resistere al precoce insegnamento materno («guarda sempre dritto davanti a te» ) e nel 1956 decise di attraversarla quella distesa azzurra, imbarcandosi alla volta dell’Italia. Aveva vent’anni e le tasche piene di sogni, che poi trasformò in pietre e carbone.

FU SOLO L’INIZIO. Esule per scelta, con il compito di inventariare ovunque nel mondo le tracce lasciate dai corpi e di registrare la conseguente assenza umana nei luoghi appena attraversati o precipitosamente abbandonati, Kounellis trovò un principio regolatore al caos delle traiettorie: la drammaturgia delle forme a cui affidò il racconto del dramma di ogni sparizione. Cominciò ad arredare lo spazio con le sue domande mute, con la tragicità di alcuni oggetti semplici che testimoniavano – con il loro reale peso fisico – la solidità stessa della Storia. Ogni cosa disseminata (e illuminata) diventò così una scheggia di narrazione, la linea interrotta mille volte, e altrettante mille volte ripresa, di un discorso collettivo.

«L’ARTE NON È INTIMA – asseriva l’artista greco – L’opera diventa dialettica nello spazio, sia esso una chiesa, una fabbrica abbandonata o una galleria. Richiede sempre uno spazio sociale e anche poetico. Ogni poesia ha una sua stesura ed è in quella stesura che si può ritrovare l’altro e l’emozione».
Nato a Atene nel 1936 ma italiano d’elezione, Jannis Kounellis è morto a Roma, all’età di ottant’anni, per le complicazioni di una brutta influenza virata in polmonite (lunedì 20, alle ore 11,30, presso la chiesa degli Artisti di piazza del Popolo si terranno i suoi funerali).

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Giovanissimo, aveva portato in Italia le sue radici. Affermava, ridendo, di averle in testa quelle radici, a prescindere dal suolo che si trovava a calpestare. Il Pireo lo aveva vissuto come un luogo limite, un confine da superare. Da lontano, dalle sue finestre di casa, vedeva il Partenone e quell’immagine di misura umana e divina insieme, iscritta fra perfette colonne e simmetrie, aveva inciso dentro di lui un fine: quello di un nuovo umanesimo da fondare. La logica (amava molto questa parola che spesso usava al posto di un termine più generico come cultura) lo invitava a porre al centro l’uomo, in un concentrato rigoroso di storia, emozioni, tragedie e gioie. E la sua esistenza l’ha spesa tutta in mezzo a lettere primarie – segni di alfabeto che «cantavano i loro ritmi sulle pareti» – cavalli veri portati a pascolare nelle scuderie dell’arte (all’Attico di Fabio Sargentini nel 1969), pezzi di carbone ordinati su lamiere, lastre di piombo arrotolate come fossero giacigli di vagabondi apolidi, sacchi di juta che somigliavano a bozzoli vuoti.
L’Arte Povera di Kounellis, in qualsiasi sua declinazione, è stata un omaggio a quell’atto unico che è la vita stessa, il set dove si compie il destino di ognuno. Fedele per circa sessant’anni al suo linguaggio, questo pittore, scultore e regista dello spazio ha sempre ostentato un particolare spettro di colori, che lo rendeva riconoscibile a un primo sguardo: la trama delle mostre si dipanava in tutte le gamme del grigio, della ruggine e del nero fumo. Il suo è un atlante cromatico della nostalgia.

DUE ANNI FA, all’ultima Biennale di Venezia, dove era stato invitato al padiglione Italia come un grande classico del secondo Novecento, Kounellis se ne stava in una piazzetta dell’Arsenale, appoggiato a un pozzo. fumava nervosamente e giudicava l’allestimento della mostra troppo «pulito», poco esperenziale. Lui, timoniere solitario verso porti utopici, perduti e ritrovati, non era fatto per stare in compagnia né per condividere strade comuni (se non con la moglie Michelle), nonostante quegli inizi apparentemente di gruppo con i poveristi, tra l’effervescenza romana e quella torinese degli anni Sessanta.
Per la poetica perseguita, per i materiali utilizzati – ferro, carbone, sacchi di juta, stracci, pietre, fuoco, terra – Kounellis poteva sfoggiare infinite risonanze con molti suoi colleghi (Fabro, Zorio, Paolini Penone, Pistoletto…). Il suo alfabeto visivo – soprattutto ferro e carbone – non lo ha però mai considerato in quanto materia tout court, ma lo ha introiettato come una presenza letteraria. Ultimo dei romantici, Jannis era un appassionato dell’epopea ottocentesca. Il suo carbone veniva da lì, nasceva dalla letteratura francese, dai romanzi di Victor Hugo. E poi c’era il peso, il vero metro obiettivo per un giudizio estetico-artistico. «La tela un tempo era una superficie idealizzata, ma tutto ciò che ci circonda ha un peso e un peso è un’avventura di per sé. Un quadro non polarizza lo spazio, ma un quintale di carbone sì, lo determina».

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DAL SECONDO DOPOGUERRA, diceva Kounellis, non era più possibile una pittura tonale, che andava alla ricerca dell’armonia, come quella di Morandi. La borghesia che sosteneva quel principio era morta. L’urgenza era ormai uscire dal quadro.
L’esplorazione della «stanza di sé» si declinò con gabbiette abitate da uccelli vivi che facevano da cornice alle opere, oppure con le partiture spaziali/architettoniche di cappotti neri senza più proprietari. O ancora, con fiammelle e lamiere a scandire percorsi di fantasmi, quando ancora penzolavano minacciosi ganci alle pareti. Tutto senza titolo, sempre.
L’uomo, infatti, li ha popolati quei posti, le impronte sono ovunque, eppure ora è evoc ato in assenza, per via di mancanza. Il suo era un difficile lavoro archeologico: Jannis ricostruiva topografie di spostamenti, intrecciava fili di storie e le lasciava sospese proprio lì, nell’incrocio da cui tutti erano appena andati via. Kounellis è stato l’icona del migrante esploratore, dello straniero che va verso gli altri, chiedendo un incontro. La dislocazione, l’idea di fuga frettolosa, l’esilio impaginato e classificato per mettere ordine nel caos emotivo: sono queste le tematiche più vicine al maestro «poverista».

NON SAPEVA RISPONDERE Kounellis alla domanda diretta sul perché, a un certo punto, si diventi artisti («non ricordo se era mattino pomeriggio o se il sole stava calando quando mi è venuta l’illuminazione di un’immagine, che poi è diventata lingua…»), ma conosceva molto bene le motivazioni che avevano spinto – lui e altri esponenti della sua generazione – ad andare «fuori quadro».
Qualcosa, in quel repentino mutare di prospettiva, c’entra anche la sua fatale attrazione per l’Italia, che aveva lontane origini. Con il nonno paterno americano, avrebbe potuto trasformarsi in un perfetto newyorkese, ma per Kounellis, dopo le madonne di Tiziano e quelle di Caravaggio, così fortemente carnali, dai potenti chiaroscuri narrativi, non poteva esistere altro luogo dove emigrare. Era un erede di quella storia che metteva al centro un nuovo umanesimo. «Appartengo al mondo degli ombrosi», specificava, sottolineando poi che quell’ombra non nascondeva ambiguità linguistiche, ma offriva la possibilità – sempre aperta – di tessere una drammaturgia. L’Italia, dunque, non avrebbe mai potuto diventare la patria di un Mondrian e di quella sua chiarezza espositiva, mistica e moderna.

Kounellis - Cavalli (1969)
Per Kounellis, la storia dell’arte – e per estensione dell’umanesimo – andava percorrendo i sentieri logici di un Masaccio per inerpicarsi, fin dal primo dopoguerra, agli albori del XX secolo con le avanguardie, verso il grande nord, quello tedesco degli espressionisti o quello ancora più estremo di Munch, pittore da lui amatissimo. L’artista distaccato che lavorava al cavalletto era scomparso, era necessario cercare un dialogo, bisognava introdursi nel teatro della vita, sporcarsi le mani. E già i cavalli esposti all’Attico potevano essere considerati una sorta di magico incipit di quella drammaturgia cui Kounellis fa riferimento come scardinamento totale di un linguaggio che, dopo il conflitto bellico, non aveva più un dna assicurato.
Tanto meno oggi, quando la precarietà esistenziale è l’unica certezza planetaria, «democraticamente» condivisa da tutti, loro malgrado.