L’incubo degli stupri in India non è tornato: c’è sempre stato, nascosto dall’ipocrisia di un’informazione e di una sensibilità popolare reattiva solo quando la tradizione machista indiana si manifesta sotto i riflettori delle grandi metropoli.
A quasi nove mesi dalla morte di Jyoti Singh Pandey, la studentessa di 23 anni violentata da sei uomini su un autobus a Nuova Delhi, venerdì mattina un nuovo stupro di gruppo ha rilanciato il tema della violenza di genere. La sera prima, una fotogiornalista di 22 anni stava lavorando assieme a un collega nel complesso di Shakti Mills, a Mumbai, ex area industriale abbandonata al degrado. Secondo le ricostruzioni, un paio di uomini si sono loro avvicinati e, guidandoli all’interno di un edificio in disuso, avrebbero malmenato e legato lui, violentando a turno la ragazza assieme ad altri tre uomini.
La giovane fotografa, ricoverata in ospedale con lesioni interne multiple, è in stato di shock, mentre, grazie agli identikit forniti dal compagno, le autorità sono riuscite ad arrestare uno dei cinque presunti stupratori, dicendosi già sulle tracce degli altri quattro.
Il parallelismo coi fatti di Delhi va però al di là dei dettagli del crimine. Come lo scorso dicembre, la società e la politica indiana hanno reagito all’ennesimo caso di violenza di gruppo rimettendo in scena il paradigma dell’indignazione: le città indiane non sono sicure per le donne, lo Stato non garantisce la sicurezza delle nostre figlie, serve un inasprimento delle pene, castrazione o pena capitale. Il problema, ci si convince, è l’ordine pubblico.
Aggravato dalla convenzione che indicava nella moderna Mumbai la città modello per la sicurezza delle donne indiane, l’episodio è stato immediatamente fagocitato dalla campagna elettorale in corso, con l’opposizione nazionalista del Bharatiya Janata Party (Bjp) a guidare la contestazione durante i lavori della Rajya Sabha, la Camera Alta.
«Cosa sta facendo il governo per fermare questi episodi?» ha chiesto l’ex attrice, ora deputata del Bjp, Smriti Irani, esortando il resto dei colleghi all’opposizione a «non essere più spettatori muti di fronte alle violenze contro le donne».
Per tutta risposta, le autorità dello stato del Maharashtra – governato dall’Indian National Congress (Inc) di Sonia Gandhi – hanno assicurato una risoluzione veloce del caso, offrendo alla famiglia della vittima la difesa di Ujjwal Nikam, celebre avvocato impegnato in passato, tra gli altri, nel caso dell’attentato bombarolo a Mumbai nel 1993.
Ancora una volta, nella fretta di far prevalere la rule of law e rimarcare l’impegno della polizia come garante della sicurezza pubblica, le dichiarazioni ufficiali e il dibattito nazionale hanno evitato di affrontare la radice culturale di un’India sessista e discriminatoria, dove alle donne – in nome della tradizione e del pudore – vengono quotidianamente negate libertà di movimento ed emancipazione, arrendendosi di fatto ad una bestialità del maschio considerata condizione immutabile, genetica. Un’India dove la risposta alle molestie nei treni pubblici è ancora oggi la carrozza riservata alle donne. In questo panorama desolante, se non altro brilla una nuova consapevolezza delle ultime generazioni, che dalle strade di Delhi del dicembre scorso ai social network di oggi, cercano di stimolare una riflessione profonda.
«Ogni volta che una donna viene stuprata in una città, non facciamo altro che chiederci la solita vecchia domanda: è un posto sicuro per una donna? Perché non ci facciamo domande più dure? Domande che aiutino a sollevare delle questioni vere?» ha pubblicato Rachna Gupta sul suo account Facebook. Le stesse domande che imponevano i manifestanti universitari accampati davanti alla residenza del presidente Mukherjee nove mesi fa. E mentre col passare dei mesi la cronaca locale si riempiva di «stupri di serie b» – nelle campagne, con vittime tribali o di minoranze etniche – la democrazia più grande del mondo elargiva le proprie insufficienti risposte di ordine pubblico.