Il cinema e la letteratura di fantascienza hanno più volte descritto lo spazio della rete come materializzabile e pienamente abitabile e, sebbene vi siano ancora molte le incertezze, il metaverso sembra essere sempre meno una citazione letteraria.

Con Michel Reilhac e Liz Rosenthal, curatori della sezione dedicata alla realtà virtuale della Biennale Cinema, abbiamo parlato di questo scenario, presente alla Mostra del cinema come altro côté di un medium che sembra eccedere i confini artistici, producendo un nuovo tipo di spazio sociale.

Quest’anno, infatti, a differenza delle edizioni precedenti, accanto alla selezione di opere internazionali in anteprima e fuori concorso, di cui si nota un livello molto alto, è stato possibile visitare i mondi virtuali (VR Gallery), un insieme di ambienti interconnessi in cui, ciascuno mediato dal proprio avatar, è potuto entrare simultaneamente. Potremmo dire che si tratta di uno spazio digitale dal vivo, in cui le persone possono darsi appuntamento, assistere a eventi, o semplicemente passeggiare ed esplorare i diversi ambienti. Se nello spazio fisico del terzo piano del Palazzo del Casinò è stato possibile esplorare i trentaquattro progetti selezionati per la Biennale, attraverso la piattaforma social virtuale VRChat ha preso vita un festival parallelo alla Mostra e completamente virtuale.

Venice VR si conferma, dunque, un appuntamento di fondamentale importanza per chi intende avere una panoramica sullo stato dell’arte di questo medium, sperimentando in prima persona quel legame profondo, effimero e simbiotico, con un dispositivo non più solo di partecipazione immaginaria.

Il lavoro curatoriale di Michel e Liz fa oggi il punto sull’accelerazione incredibile nell’uso di questo strumento rispetto al quale, ci dicono, si sta dispiegando una seconda rivoluzione. Se fino ad adesso la realtà virtuale è stata un luogo solitario, una dimensione single-player come si direbbe in gergo – fatta eccezione per alcuni video giochi comunque piuttosto rudimentali – la prospettiva di ricerca attuale è invece volta alle esperienze condivise. Per il momento si tratta di un mondo underground, ci spiegano, ignoto al pubblico generalista, sebbene sia già popolato da milioni di utenti per lo più nativi delle piattaforme.

Il problema si sposta, dunque, dal piano ontologico a quello operazionale. Detto altrimenti, la domanda più stringente diventa oggi: che fare e come usare questa tecnologia? In questa prospettiva, Michel e Liz hanno ampliato la sezione, costruendo un festival che va ben oltre la classica competizione tra opere e artisti. È nello spazio virtuale delle piattaforme, infatti, che sostengono di aver incontrato le punte più alte di sperimentazione creativa contemporanea ed è lì che hanno avuto luogo gli incontri con i creatori che a vario titolo stanno contribuendo a rendere l’ambiente mediale di Venice VR sempre più immersivo e interattivo. Mentre per quanto riguarda le opere si assiste a installazioni di natura anche autoriale – gli artisti che insistono con questo medium stanno sviluppando un proprio stile e codificando delle nuove forme che coniugano arte astratta e narrazione cinematografica, ricerca estetica e valore testimoniale dell’immagine – il nuovo spazio sociale virtuale ha piuttosto a che fare con un nuovo modo di produzione e, insieme, con una radicale riconfigurazione del rapporto tra esperienza fisica e digitale. Cambia, inevitabilmente, il modo in cui la realtà virtuale è stata concepita fino ad adesso e, rispetto all’ambito festivaliero, cambiano anche i connotati della presenza di questa sezione ormai al suo quarto anno.

Se è vero che le categorie interpretative sembrano mancarci, così come una possibile previsione di uno scenario futuro che in ultima istanza preveda la familiarità degli utenti con questa tecnologia e, dunque, un suo mercato diffuso, uno sforzo immaginativo e alcune considerazioni possono già essere fatte.
Innanzitutto, a promettere il traghettamento della realtà virtuale dell’era delle infrastrutture tecnologiche di nuova generazione sono i grandi colossi come Facebook, Amazon, Google, Apple e simili. Il dibattito delle ultime settimane ruota, infatti, intorno a un possibile metaverso come nuova evoluzione di Internet e dimensione del reale.

È infatti il colosso di Zuckerberg – proprietario dal 2014 anche di Oculus, una delle maggiori aziende di VR, creatrice del visore attualmente più avanzato in vendita – per ora il capofila con il lancio di Workrooms, declinazione virtuale dei più comuni strumenti digitali da smart working, in cui già da mesi i vertici dell’azienda si incontrano nella loro routine lavorativa. Concretamente si tratta di una piattaforma aperta e gratuita, primo tentativo di abbandono del 2D e dei relativi schermi laddove oggi sono maggiormente necessari: nel lavoro da remoto. Ma il fine ultimo di Facebook è quello di far migrare il social network nella realtà virtuale attraverso il lancio della piattaforma Horizon che, come spiegano Michel e Liz, imprimerà un’accelerazione nella popolarizzazione di questa tecnologia.

Siamo, dunque, di fronte a un’azione potente e trasformativa del digitale che investe innanzitutto la categoria di spazio e insieme, come direbbero i geografi, il concetto di scala, la descrizione della realtà e, infine, la realtà stessa.
I progetti in Concorso, da questo punto di vista, sono infatti di un certo interesse, come dimostra l’opera vincitrice del Gran Premio della Giuria intitolata, appunto, Goliath: playing with reality.

L’esperienza progettata da Barry Gene Murphy e May Abdalla è intensa e dura poco meno di mezz’ora: la voce di Tilda Swinton accompagna il visitatore nelle molte dimensioni psichiche di Goliath, un uomo diagnosticato schizofrenico e tenuto per anni in isolamento psichiatrico. I suoi luoghi sicuri, una volta fuori dall’istituzione di cura, sono i giochi online multiplayer in cui poter condividere con altri il principio di realtà contingente alla piattaforma di gioco.

Un lavoro significativo che, oltre la sua dimensione metaforica, gioca sulla sottrazione radicale della sintassi spaziale con cui siamo abituati a governare la distanza tra le cose, tra noi e il mondo. La residualità delle unità di misura classiche è il perno su cui poggia questa esperienza che, infatti, intende stimolare un altro e intuitivo rapporto con gli impulsi luminosi e sonori che compongono l’ambiente circostante. Il confronto fragile di Goliath con la realtà viene quindi tradotto per il visitatore in un’esperienza allucinatoria in cui è la rappresentazione stessa ad essere precaria, a dissolversi, a moltiplicarsi.
Al di là del dibattito contemporaneo sulla sfida computazionale sollevata dall’ingresso nella presunta nuova era del metaverso, il grande potenziale euristico della sperimentazione artistica è non solo affascinante ma, come altre volte in passato, importante per elaborare una sensibilità anche critica verso le trasformazioni in atto.

Il lavoro dei due curatori va infatti in questa direzione, con l’entusiasmo di chi dialoga con l’immaginazione creativa di artiste e artisti che collaborano in modo inedito, sfruttando gli ambienti virtuali come spazio globale di gioco in cui interagire e creare liberamente.

L’isola virtuale su cui si svolge il festival di Michel e Liz è, ormai, uno dei luoghi della Mostra, a cui è possibile accedere da ogni dove, in ogni momento e nella forma che più ci rappresenta. L’avatar di Michel, a volte, è una tazzina di caffè.