Da mesi mi chiedo come sia possibile che nessuno, in questo frangente, prenda l’iniziativa per ricostruire una sinistra che non c’è. Nelle ultime due settimane ho letto con piacere una serie di interventi che sembrano preannunciare la ripresa di un’iniziativa. Ma adesso occorre agire. Che cosa stiamo aspettando? Siamo in una crisi radicale, senza più alcuna rappresentanza, con milioni di persone che non si riconoscono più in nulla e in nessuno, che hanno fame di una prospettiva altra da quella che ogni giorno abbiamo davanti agli occhi e sottopelle. E invece stiamo qui a baloccarci con le armi sterili della critica senza passare, non dico alla critica delle armi letteralmente intese, ma a quella forza materiale che sola può abbattere la forza materiale. Lo scorso anno ero stato coinvolto nell’esperienza di Cambiare si può, e avevo raccolto l’appello con entusiasmo, vedendolo come un’opportunità per ridar vita dalle fondamenta a un aggregato di forze e movimenti in forme inedite e all’altezza delle sfide presenti. Quell’esperienza venne suicidata, dalla famelica voracità dei partiti che credevano di salvarsi con l’accozzaglia verticistica della lista Ingroia, che venne, provvidenzialmente e giustamente, punita. Cambiare si può era nata troppo a ridosso delle elezioni per poter efficacemente svolgere un processo costituente e reggere l’impatto delle macchine partitiche che decisero, prima ancora dell’assemblea del 22 dicembre di Roma, in disprezzo di qualsiasi decantato e incantatorio meccanismo dal basso, di prendere il controllo e spartirsi le candidature.
Ma adesso il tempo ci sarebbe. Abbiamo praterie sconfinate da solcare, e sono un’opportunità epocale. Solo che se manca l’iniziativa, quelle praterie non sono che uno sterile deserto. Ci sono milioni di persone, in questo momento, che hanno fame, e bisogno, di un nuovo soggetto politico, ma nuovo davvero, che sappia mettere in rete le loro istanze di politica. E hanno fame e bisogno di un soggetto di sinistra (se è vero che sinistra è un concetto inestricabile da, e fondativo della, società moderna: dove sinistra – se andiamo a fare archeologia del concetto all’altezza della Rivoluzione francese – significa fondamentalmente universalità dei diritti e uguaglianza non solo formale ma anche sostanziale), ma appunto una sinistra da ripensare radicalmente: i soggetti politici tradizionali sono defunti, e ogni accanimento terapeutico non servirà, sarà anzi il prolungamento di un’agonia. Per l’epoca nuova, come già scrissi a suo tempo, è necessario un soggetto aperto, dal basso, che si confronti con le istanze della democrazia diretta, che sia strumento della democrazia partecipativa, di una diffusa partecipazione dal basso.
Un’esperienza che riparta dalla realtà dei movimenti, superando l’equivoco della “società civile” (presa in una fondativa complementarità con lo Stato) come luogo della salvezza contro la politica come luogo della corruzione: superare, insomma, il divario abissale tra rappresentanti e rappresentati. Ciò che, per quanto affrettatamente e magari confusamente, Cambiare si può proponeva non era – come venne invece a volte inteso dai militanti dei partiti – contrapporre i rappresentanti di una fantomatica società civile intesa come non-partitica ai militanti dei partiti. Era, piuttosto, introdurre un nuovo concetto, indispensabile per attuare una vera democrazia partecipativa: quello delle storie personali, delle biografie. Chi può e deve rappresentare le istanze politiche dei territori se non coloro che dei processi in corso nei territori stessi sono l’espressione diretta? E qui non c’entra la tessera di partito o l’adesione a un’associazione. C’entra la qualità della persona, il suo essere espressione reale, e non solo ideale, di realissime dinamiche, processi, lotte, conflitti. Non si tratta di chiedersi che tessera ha in tasca qualcuno, ma chi/che cosa rappresenta, quale istanza/bisogno del territorio, con quale lotta è in connessione e di quale processo si fa portatore… In questo senso, allora, saranno le biografie, le storie personali, a diventare la carta d’identità complessiva del movimento, fuori da ogni leaderismo e verticismo. Solo a partire da qui si può realizzare la democrazia partecipativa.
È necessario un soggetto reticolare e non identitario, fondato sulle pratiche, dove – per detournare Marx – il fare preceda l’essere. Finale di partito, dice come è noto Marco Revelli. Dire “partito” significa dire un soggetto finalizzato al momento elettorale e all’occupazione delle cariche pubbliche dei suoi militanti (si confronti la classica definizione di Anthony Downs: «Una compagine di persone che cercano di ottenere il controllo dell’apparato governativo a seguito di regolari elezioni»). Oggi bisogna rovesciare questa piramide, e ridare vita, di fatto, a una pratica libertaria: una pratica reticolare, dove è la partecipazione dal basso a dar forma al movimento e non viceversa, dove le dinamiche del movimento (nonché il suo “personale politico”) siano l’espressione dei processi reali del territorio. Un movimento che non sia finalizzato al momento elettorale, ma dove esso sia uno dei momenti di un processo più ampio di risocializzazione del territorio, dei territori, anche dal punto di vista di quella che Ulrich Beck chiama «subpolitica».
L’esperienza del movimento No Tav, io credo, ci sta davanti a segnare una strada, a tracciare un cammino. Il movimento NoTav non è una bandierina da sventolare, ma un movimento inclusivo da praticare.
Insomma, si tratta di procedere a una vera e propria rivoluzione copernicana. Solo così può rinascere un soggetto collettivo che sappia mettere al centro del discorso politico il tema dei beni comuni, che ripensi un nuovo legame sociale basato senza tentennamenti sull’inclusione e sull’universalità dei diritti, che sappia contrastare l’ideologia e la pratica dei poteri forti globali, quell’intreccio inestricabile tra classe politica, finanziaria ed economica che costituisce il nerbo del finanzcapitalismo. C’è bisogno dunque di un soggetto che comprenda il trapasso epocale che c’è stato: il resto è sopravvivenza  post-mortem.
Tutto questo è necessario farlo subito, adesso. Io chiedo a tutte e tutti coloro che erano in Cambiare si può, a tutte e tutti coloro che si sentono e sono parte attiva della sinistra sociale, dei movimenti: che cosa stiamo aspettando? Vogliamo o no ripartire? Vogliamo restare a guardare la catastrofe che si sta compiendo sotto ai nostri occhi? Vogliamo restare alla finestra aspettando che passi il cadavere del nemico, quando invece i cadaveri che passeranno saranno quelli maciullati dal rullo compressore del finanzcapitalismo? Davvero la nostra delusione e il nostro scoramento sono arrivati a livelli così insopportabili?