Risulta curioso il modo di procedere del governo e dell’attuale larghissima maggioranza in tema di riforma fiscale. Il provvedimento assume l’idea che la riduzione del carico fiscale sia di per sé uno strumento capace di promuovere crescita economica. Meno imposte incentiverebbero i consumi e soprattutto gli investimenti. Peccato che in questi decenni la teoria secondo cui rafforzare i profitti di oggi avrebbe rafforzato investimenti e occupazione domani non abbia mai raggiunto il secondo step.

Se c’è un elemento che ha caratterizzato il ciclo economico degli ultimi quarant’anni è proprio la debolezza del tasso di accumulazione e la contestuale crescita degli investimenti finanziari spesso a carattere puramente speculativo. In fondo è lo stesso testo di maggioranza che ci ricorda il risultato principale del neolibersimo quando sottolinea come il «trend di riduzione della quota di redditi da lavoro sul Pil» sia «passata dal 68% del 1970 al 52% del 2018»! Un risultato ottenuto anche grazie alla riduzione del carico fiscale sui grandi redditi e sui grandi patrimoni. Da qui si dovrebbe ripartire, invece la direzione è un’altra. Esemplificativa è l’idea di ammorbidire la normativa fiscale sulle rendite finanziarie permettendo di pagarle al lordo delle «spese» e delle «minusvalenze», uniformandole a redditi da capitale e tassandoli a livello del primo scaglione dei redditi da lavoro.

Non solo. Il testo demanda l’obiettivo di canalizzare il risparmio privato verso l’economia reale a specifici «incentivi fiscali» non meglio precisati. Nel testo si propone l’abolizione dell’Irap (imposta regionale sulle attività produttive) e la reintroduzione dell’Iri, che sottrae gli utili aziendali reinvestiti all’aliquota Irpef. Quest’ultima dovrebbe ridurre il suo peso sul ceto medio. L’orientamento è chiaro: la riduzione delle imposte sembra tutta spostata ancora una volta dal lato dei profitti, mentre il testo non indica neanche le coperture a fronte dei cambiamenti ipotizzati. Un’assenza inspiegabile in tempi di emergenza sanitaria ed economica fronteggiata quasi unicamente attraverso un netto aumento delle spese statali.

Possibile che lo Stato possa permettersi di rinunciare ad alcune entrate? Sacrificando quali spese? Da sottolineare il giudizio di un ex ministro delle Finanze come Vincenzo Visco, il quale afferma che «si tratta essenzialmente di un testo con una forte propensione anti-tasse (…) e in cui le imposte vengono viste sempre come eccessive e distorsive». Ciò che sorprende particolarmente è come vengano rimosse le dinamiche attualmente in corso. La crisi pandemica è stata arginata con imponenti dosi di moneta e di debito. Le banche centrali hanno allargato i loro bilanci come mai prima d’ora e gli Stati hanno aumentato i loro debiti del 10-20%.

Queste risorse forse per la prima volta dalla crisi del 2008 sono anche sgocciolate nell’economia reale e alle principali vittime della pandemia, ma è indubbio che il passaggio attuale ha impresso un’ulteriore accelerata alle diseguaglianze. È di pochi giorni fa l’annuncio della Fed che l’1% degli statunitensi più ricchi detenga il 53% degli investimenti finanziari, il valore più alto da quando nel 1989 viene misurata la distribuzione della ricchezza tra i cittadini Usa. Una polarizzazione che viene confermata anche su base etnica dato che i bianchi detengono l’82,9% degli asset totali.

Se gli Stati Uniti rappresentano la punta avanzata di tali processi di concentrazione di ricchezza l’Italia non li contraddice certo. Una ricerca del CSEF di aprile indica che dalla metà degli anni Novanta al 2016 la ricchezza netta media dello 0,1% più ricco degli italiani è raddoppiata, mentre il 50% più povero degli italiani è passato dal detenere l’11,7% della ricchezza al 3,5%. Forse una riforma fiscale dovrebbe partire dalla necessità di invertire questa tendenza e contestualmente rafforzare il ruolo pubblico nel rilancio degli investimenti.