Vediamo solo le trecce nere, della donna certamente giovane che ha un fucile mitragliatore in spalla, il viso è tutto girato dall’altra parte. Una combattente, immagine forte per una delle tante manifestazioni in Italia che oggi hanno accolto l’invito delle donne curde di dedicare la giornata internazionale delle donne 2015 alla loro lotta. Non è mai successo, che io mi ricordi, che donne armate siano state scelte a rappresentare l’8 marzo.

Neppure nel 1977, anno piuttosto turbolento. Allora l’arma fu il gesto femminista, in piazza, le mani unite in alto, nel triangolo che indica il vuoto e la potenza del sesso femminile. («Il gesto femminista», a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, Derive&Approdi). Atto forte, sovversivo. Mi è venuto in mente nel guardare la foto della ragazza che qualche giorno fa è andata in giro da sola per Kabul, coperta da una specie di armatura, indossata sopra gli abiti e comunque con il velo in testa, che disegnava il corpo nudo di una donna. Lei però era sola, in mezzo agli uomini esagitati che l’hanno circondata e semi-aggredita. La donna armata dice qualcosa di nuovo, segnala un cambiamento. La foto è stata scelta con cura, la ragazza non punta l’arma e non alimenta lo stereotipo della bella guerrigliera. L’invito delle donne curde dice: «Organizziamo la resistenza ovunque nel mondo le donne subiscano violenza. Diffondiamo insieme lo spirito di resistenza che ci unisce e ci rafforza contro ogni manifestazione del sistema di dominio patriarcale».

Un invito politico, che non trasporta in Occidente la guerra che viene combattuta dalle donne peshmerga in prima persona, sui campi di battaglia. Una lotta che è entrata con forza nel nostro immaginario da settembre, prima con i combattimenti e poi la successiva liberazione di Kobane. E così sono venuti i reportage, le interviste in tutti i media mainstream, soprattutto i femminili. Senza dubbio le combattenti hanno acceso l’immaginazione, hanno attivato un fuoco latente. Suscitano un’enorme ammirazione, combattono per la libertà loro e delle loro figlie, contro un esercito, quello dell’Isis, per il quale essere donne è una colpa, e fonte di contaminazione, all’interno di un’organizzazione, il Pkk, che ha fatto dell’uguaglianza tra donne e uomini un proprio valore.
Eppure. Come la mettiamo con la non violenza? Con la convinzione femminista che la guerra è una vicenda maschile? L’Isis è un nemico che mette a tacere qualunque dubbio, a proposito di guerra? Sono domande aperte, tutte da affrontare. E inquieta che non ci sia nessuna (e nessuno) che le raccolga. Ma non è il caso di confondere i piani. Non tutte le manifestazioni in Italia dedicate alla lotta delle donne curde mettono direttamente in scena una donna armata. In ogni caso un conto è un popolo in guerra, che difende la propria vita, altra è la situazione qui, in Italia.

Ma bisogna dirlo. In tutte queste manifestazioni si avverte un inedito spirito di rivolta. E non solo tra le più giovani e radicali.
Contro il solito ottomarzo, ridotto a un San Valentino con le mimose. Anche contro il catalogo dei risultati raggiunti, o dei successi mancati. Che sono sempre gli stessi. Il gap retributivo, tra donne e uomini, indicato a gran voce anche nelle élite, da donne come Christine Lagarde, la presidente del Fmi, uno degli organismi che controllano l’economia mondiale. O da attrici famose come Patricia Arquette, che nel suo discorso alla consegna dell’ Oscar come attrice non protagonista per Boyhood, ha dedicato il premio a: «tutte le donne che hanno partorito, tutte le cittadine e le contribuenti di questa nazione: abbiamo combattuto per i diritti di tutti gli altri, adesso è ora di ottenere la parità di retribuzione una volta per tutte, e la parità di diritti per tutte le donne negli Stati Uniti».

Ci si ribella anche contro l’eterna ripetizione della donna vittima. Non che il femminicidio, o i maltrattamenti, siano un’invenzione. Eppure il martellamento implacabile dei dati, la ripetizione compiaciuta di storie di crudeltà e sopraffazione senza indicare vie d’uscita, è ormai insostenibile. Una generazione che ha scoperto di essere donna – differente dai propri coetanei – nel rifiuto della violenza contro il proprio genere, e ha dato vita alle prime manifestazioni del 25 novembre dieci anni fa, sperimenta ora la necessità di partire da sé, di non aspettare soluzioni da fuori, da altri. E anche la grande fiammata, ormai spenta, di Se non ora quando, la grande manifestazione del 13 febbraio 2011 che ha dato voce a un’enorme rabbia femminile, si è sedimentata. Siamo oltre, anche oltre la delusione.

Le donne sono dappertutto, dice la Libreria delle donne di Milano. È certamente vero Non siamo più in regime di scarsità, e sia pure con tutte le ben note mancanze, non c’è settore della vita pubblica, politica e professionale, in cui non ci siano donne. Che parlano, anche in Italia. La presidente della camera Laura Boldrini ha di nuovo ricordato la necessità di usare bene le parole, di declinarle sempre anche al femminile. Ottima battaglia, le reazioni sgangherate dicono quanto sia necessaria. Ma questo significa che il femminismo gode di buona salute? Che è disponibile all’elaborazione comune una visione politica che permetta di agire in questi tempi di crisi?

Ecco, la crisi. È la crisi che ha rimescolato le carte, che ha obbligato a guardare con occhi diversi le storie di ciascuna e ciascuno. Se la parità di retribuzione tra donne e uomini è un problema aperto, e giustamente rivendicato, che deve dire chi si trova incatenata al meccanismo dei piccoli lavori precari equamente mal retribuiti? Per non dire sottopagati? Lo spirito di rivolta nasce qui, in condizioni materiali di esistenza in cui si è imparato a vedere che differenze ci sono, tra donne e uomini, anche nella precarietà. Che non è una categoria indifferenziata, come in tante avevano rivendicato, scagliandosi contro l’ostinazione di pensarsi differenti delle femministe d’antan. Che il post-patriarcato non prescinde dai corpi e dalle loro differenze. Anzi li mette al lavoro in nuove forme peculiari, per esempio nella maternità surrogata, in un biolavoro schiavizzante che ha molte affinità con lo sfruttamento della natura, della terra. È su questo terreno che vanno ridefinite le relazioni, tra donne e uomini. E le protezioni sociali, quelle che l’austerità europea ha fatto sparire, vanno ripensate sulla base di nuovi modelli, di una nuova pratica della cura, che certo non potranno basarsi sul capofamiglia di un tempo. In un intreccio tra economia, bisogni, relazioni, sentimenti e affetti tutto da ripensare.
Insomma, è una speranza la ribellione alle trappole fabbricate dalla crisi. Fa piazza pulita delle zone fin troppo comode, fin troppo separate, che nel tempo si sono costruite. La crisi non ha pietà. Richiede tutta la nostra capacità di sognare grandi imprese.