Nell’autogestione di piazza Tahrir gli iracheni hanno modellato la società che vorrebbero. Sanità, distribuzione del cibo, accoglienza ai poveri, riconoscimento sociale di lavori fino all’altro ieri considerati poco dignitosi ed educazione.

Ci sono gli studenti che partecipano attivamente alla protesta popolare iniziata lo scorso primo ottobre, in sciopero al fianco degli insegnanti nelle città del sud e nel presidio permanente nel centro di Baghdad: domenica hanno affisso lo striscione «No ai partiti, questo è il risveglio studentesco».

E c’è l’educazione dal basso, raccontata in un video da al-Jazeera: dentro il palazzo abbandonato che sovrasta la piazza, noto a tutti come Turkish Restaurant, un mese fa è stata aperta una libreria con testi in arabo e in inglese, costantemente rifornita e che accoglie tantissimi giovani. Fondamentale – dicono i manifestanti e il gestore, Hassan Yusif, del Mada Institute – a tappare una voragine: secondo l’Iraqi Commission for Human Rights, milioni di iracheni tra 15 e 25 anni sono semianalfabeti, mentre la normalità nelle scuole (non l’eccezione) sono classi da 50 alunni.

È in questo contesto di de-strutturazione dei servizi essenziali che gli iracheni scendono in piazza da un mese e mezzo, con un sacrificio di vite che supera abbondantemente i 320 uccisi e 15mila feriti dalla repressione della polizia. Ieri la protesta ha ripreso uno dei ponti sul Tigri, a Baghdad, persi a favore della polizia la scorsa settimana, e si è avvicinata alla Banca Centrale, costringendo i dipendenti a scappare.

Intanto a sud, a Najaf e Karbala, i dipendenti pubblici entravano in sciopero al fianco degli insegnanti e a Bassora venivano bloccate le vie di accesso a cinque pozzi petroliferi e, di nuovo, al principale porto commerciale del meridione, Umm Qasr. Chiuso per dieci giorni dai manifestanti, era stato riaperto dalle forze di polizia il 9 novembre, mentre il governo lamentava la perdita di sei milioni di dollari a causa del blocco forzato.

Ieri i manifestanti hanno impedito ai dipendenti del porto e ai container di entrare, costringendo lo scalo a lavorare a metà della sua capacità. Un altro sacrificio che la protesta è disposta a compiere: da quel porto entrano grano, olio, zucchero, buona parte degli alimenti consumati in Iraq.

Lontanissimi risuonano gli appelli della classe dirigente irachena. Dopo promesse di posti di lavoro per i laureati e sussidi alle famiglie povere, il governo di Abdul Mahdi si è spostato sulle riforme. Sulla questione si era espresso venerdì nel suo tradizionale sermone l’Ayatollah al Sistani, definendo la revisione della legge elettorale come necessaria a ricostruire la fiducia verso il sistema politico. Se ne parlerà oggi, in parlamento.

Ma a dare il senso vero della situazione è un’altra notizia: il mandato d’arresto per Talal al-Zubaie, deputato ed ex presidente della Commissione per l’integrità. È accusato di corruzione, la corte ha già congelato i suoi beni e imposto il divieto di lasciare il paese.

Un nome che dice poco fuori dall’Iraq, quello di al-Zubaie, ma che spiega benissimo la tentacolare rete di corruzione che governa il paese e contro cui le strade si ribellano. Contro un sistema strutturalmente corrotto che ha ingurgitato proventi del petrolio e fondi per la ricostruzione e che vive di se stesso. Gli iracheni, di cui il 60% sopravvive con appena sei dollari al giorno, sono stanchi.

Come sono stanchi delle ingerenze esterne, a partire da quella iraniana. Anche su quel fronte ieri è giunta una conferma: secondo i rapporti di intelligence pubblicati da New York Times e The Intercept, l’Iran ha dato vita – attraverso il potente generale Soleimani – a un vero e proprio governo ombra a casa del vicino, qualcosa che fonti politiche irachene definivano ieri il segreto di pulcinella. Uomini chiave, da Abdul Mahdi agli ex primi ministri al Abadi e al-Jafari, vengono descritti come vicinissimi a Teheran, mentre alcuni dei loro consiglieri sono identificati dai rapporti come spie iraniane.