La chiamata alle armi dell’Arabia saudita fa adepti. Ben 34 paesi musulmani aderiscono alla coalizione messa in piedi ieri da Riyadh: «Questo annuncio giunge dall’allerta del mondo islamico nella lotta a questa malattia», ha detto ieri Mohammed bin Salman, ministro della Difesa saudita.

Un lungo elenco di paesi, per lo più a maggioranza sunnita ma anche sciiti, molti punto di partenza di migliaia di foreign fighters in Siria e Iraq: Giordania, Emirati Arabi, Bahrein, Qatar, Kuwait, Yemen, Turchia, Libano, Palestina, Tunisia, Libia, Egitto, Marocco, Ciad, Senegal, Gibuti, Sudan, Sierra Leone, Somalia, Gabon, Niger, Nigeria, Mauritania, Mali, Costa d’Avorio, Pakistan, Bangladesh, Benin, Togo, Guinea, Maldive e Malesia. Altri 10 quelli pronti ad accodarsi, ma non subito: tra questi l’Indonesia.

Il principe non ha parlato di azioni interne ai rispettivi paesi (alcuni dei quali ospitano noti finanziatori di gruppi estremisti) né di operazioni concrete, limitandosi a dire che la coalizione opererà tramite un centro con sede a Riyadh «che coordinerà le operazioni militari». Un centro simile a quello aperto dalla Russia a Baghdad insieme a siriani, iracheni e iraniani.

Non proprio una coincidenza: l’Arabia saudita punta a riprendersi il suo ruolo, ora annebbiato dal protagonismo russo e dal pantano dello Yemen, il Vietnam di Riyadh. Dopo mesi persi a sfruttare in chiave anti-Iran la guerra yemenita, re Salman ha capito che la Siria gli sfuggiva dalle mani. Ed è tornato a focalizzarsi su Damasco: un caso che il via al negoziato tra governo yemenita e movimento ribelle Houthi coincida con il lancio della coalizione musulmana anti-Isis?

Quello di maggiore protagonismo non è un bisogno solo saudita. Molti paesi mediorientali nella pratica sono scomparsi dal palcoscenico. Come la Giordania che, dopo la rappresaglia per la barbara uccisione del pilota al-Kasasbeh, non compie raid da mesi; stesso dicasi per Bahrein e Emirati Arabi. Forti anche le motivazioni della Turchia, alle prese con le offensive simboliche di Mosca e le pressioni Usa: ieri il segretario alla Difesa Carter, in volo verso la base turca di Incirlik, ha fatto appello all’alleato perché incrementi l’impegno all’interno della coalizione.

Da tale necessità è partito il meeting delle opposizioni della scorsa settimana e ora l’idea della grande coalizione anti-Isis, parallela a quella russo-iraniana e sovrapponibile a quella Usa, blocchi che ufficialmente non cooperano ma sfruttano le divergenze sul Medio Oriente per rafforzare il proprio potere contrattuale una volta partito il dialogo. Tanto che i paesi che più di ogni altro subiscono la realtà del “califfato”, ovvero Siria e Iraq, non fanno parte del nuovo fronte: sono pedine mosse dai vari attori ma la loro voce è flebile. Baghdad e Damasco sfruttano gli spazi che si aprono nei blocchi granitici dei fronti neocoloniali (la Russia e il tandem Golfo-Occidente) per guadagnarsi briciole utili alla futura stabilizzazione geopolitica: territori al centro e nel nord per il governo siriano (che ieri ha riconquistato una base area nell’aeroporto di Damasco), la ripresa di Ramadi per il governo iracheno. Un’operazione quasi completa ma ostacolata dalla controffensiva islamista che ieri ha ucciso 65 persone in 12 attacchi suicidi contro truppe irachene e miliziani sciiti e lunedì 35 tra soldati e miliziani di tribù sunnite.

Non è una coincidenza neppure che l’annuncio arrivi il giorno dopo il messianico discorso di Obama di lunedì e la chiamata ai paesi arabi perché facciano di più. Ad un anno dalla fine della presidenza, chiaramente frustrato, vuole rivitalizzare il proprio fronte dopo due mandati di strategie quanto meno deboli in Medio Oriente: «I leader dell’Isis non possono nascondersi e il nostro messaggio è semplice: voi siete i prossimi. Li uccideremo uno ad uno – ha detto Obama – I nostri partner sul terreno li stanno stanando città per città, quartiere per quartiere. Stiamo colpendo l’Isis più forte che mai».

Obama ha anche fatto sapere di aver mandato un piccolo contingente, 50 soldati scelti, in Siria per sostenere i gruppi alleati intorno Raqqa, “capitale” dello Stato Islamico. Un dispiegamento più simbolico che strategico, mentre il segretario di Stato Kerry incontrava a Mosca il presidente Putin e il ministro degli Esteri Lavrov per «trovare un terreno comune» in vista del meeting a New York del 18 dicembre tra gli Stati anti-Isis ma soprattutto del negoziato tra governo e opposizioni di gennaio.