Anche se si può pensare che il referendum può essere usato solo come occasione per pronunciarsi contro, o a favore, dell’attuale governo, non credo che sia così. Il taglio dei deputati che verrebbe operato se vincesse il Sì è grave perché la questione riguarda un problema generale: le sorti della democrazia.
Non solo per il valore simbolico dell’immagine di quelle poltrone svuotate euforicamente mostrate davanti a Montecitorio, come a dire il parlamento non serve a niente.

È grave perché quella proposta che il Sì avallerebbe si inserisce nel contesto di una crisi molto pesante, e ormai di lunga data, dell’intero sistema democratico.
Crisi principalmente italiana, ma non solo: di tutto l’Occidente che pure continua a sbandierare la democrazia rappresentativa come il punto di per sé più alto della storia dell’umanità. Quella che avrebbe giustificato tutti i tanti interventi militari «umanitari» intesi a instaurare la democrazia dove non era stata mai sperimentata.

Intendiamoci: diritto universale al voto, libertà di opinione e Parlamento sono beni essenziali, ma di per sé non bastano affatto. Hanno valore e senso se sono accompagnati da una consapevole e generalizzata partecipazione dei cittadini alle scelte politiche che vengono assunte, altrimenti si riducono ad un esercizio formale.

Oggi come sappiamo bene questa partecipazione è minima: un voto sempre più casuale per candidati ai più semisconosciuti, al meglio in base al giudizio su problemi di cui si ignorano le complessità, perché manca ogni occasione di confronto se non quello passivo di auditore (o lettore di media detti non si sa perché «social»). Basterebbe in queste condizioni anziché procedere alla faticosa pratica delle elezioni ricorrere al tiro a sorte, così, anzi, si avrebbe anche una rappresentanza più «autenticamente» popolare, non contaminata dalla politica. (Chissà che un giorno non si arrivi anche a questo !) .

OPPURE scelti in base al richiamo comunitario, senza valutare che le comunità locali sono importantissime ma possono anche essere pessime se diventano autoreferenziali e xenofobe contro chiunque non faccia parte della propria. Ricordo – permettetemi questo mio consueto richiamo nostalgico – le vecchie sezioni del Pci, tutte radicatissime nel proprio territorio ma che ogni settimana dedicavano una serata a conoscere e riflettere su quanto accadeva nel mondo, in Europa, in Italia, alla propria città, poi anche al tram che non arrivava, o alla fontanella senza acqua . Ma così a lottare perché questi problemi locali fossero risolti, uno non si sentiva un povero disgraziato, ma parte di un grande movimento mondiale che voleva cambiare il mondo. Dove avviene oggi una simile riflessione, dove si incontra chi sa cosa si deve fare e ne discute con la propria comunità?

POTREMMO, per l’ennesima volta, piangere perché non ci sono più i partiti, o meglio quelli che erano davvero partiti. Io piango, o meglio rimpiango, e credo che non dovremmo farci travolgere dall’odio e discredito che ormai li accompagna. Ma non c’è dubbio che occorre ormai reinventare nuove forme di espressione e partecipazione. Sapendo che questa non si ottiene con una nuova legge elettorale pur indispensabile.

Non si tratta di regole o leggi. Si tratta di riaffermare nella pratica l’importanza della politica come solo strumento che consente agli umani di controllare le decisioni che li coinvolgono senza farsi abbindolare dall’idea che le scelte sono «oggettive», e misurate dal famoso pilota automatico, il mercato. E perciò vanno affidate ai tecnici, come quelli che guidano i Cda delle Banche o delle aziende, altrimenti detta «governance».

SE SI È ARRIVATI alla crisi democratica attuale è perché è finita per prevalere in buona parte della sinistra l’ossessione governista, quasi che tutto dipendesse dall’andare o meno ad occupare l’esecutivo. Abbandonando a sé stessa la società, via via sempre più ripiegata sull’«io forse me la cavo», quasi che la maggior parte dei problemi di ognuno non fosse uguale a quella del vicino.

Dunque problema collettivo, e dunque, proprio per questo, politico.

Colpe anche, diciamocelo con franchezza, della sinistra-sinistra, che questo guasto dei partiti che ha otturato i canali di partecipazione l’ha subito, senza avere le fantasia e la forza di dare ai movimenti che pure ha continuato ad animare, la indispensabile ulteriore capacità di inventarsi forme stabili di gestione della società, (i «Consigli», come suggeriva Gramsci) in grado di riappropriarsi attraverso la partecipazione politica, dell’amministrazione dei beni comuni. (Non dello Stato, i comunisti sono antistatalisti!).

Capaci, però, anche, a partire da questi nuovi punti di forza, di tener aperti i canali di comunicazione con le istituzioni democratiche rappresentative, che se non ridotte a forma è bene averle a cuore.

ANCHE QUESTO non è problema che risolverà neppure la migliore riforma della legge elettorale. Ma è certo che tagliare il numero dei deputati renderebbe questo difficile tentativo di rianimazione della democrazia anche più difficile, perché una volta che il Parlamento diventasse preda di una maggioranza e di una opposizione inevitabilmente non più articolata, anche più distante dalle pulsioni, esigenze, proposte, energie della società, il senso di impotenza e dunque la spoliticizzazione diventerebbero ben più gravi.

VOGLIO DIRE che certo il No non risolverà tutti questi problemi, ma la vittoria del Sì non comporterebbe solo una riduzione dei parlamentari con tutte le ripercussioni negative che quasi tutti i costituzionalisti ci hanno indicato nella battaglia che stanno conducendo. Significherebbe molto di più: accelerare ulteriormente il già pericolosissimo processo di svuotamento della democrazia rappresentativa che gestisce le nostre società occidentali. E a quel punto i rischi di ogni possibile avventura autoritaria sarebbero gravi.