Un grande successo di pubblico e applausi ha accolto l’altra sera all’Argentina Un nemico del popolo (in scena fino al 28 aprile) che segna il cuore della nuova stagione, e in qualche modo battezza il nuovo corso dello stabile romano, sotto la direzione di Giorgio Barberio Corsetti (anche se naturalmente lo spettacolo era stato progettato in precedenza, dopo il successo del precedente Ragazzi di vita pasoliniani,firmati come questo dalla regia di Massimo Popolizio, qui anche intensissimo protagonista).Un nemico del popolo è uno dei grandi testi di Henrik Ibsen, padre a fine 800, del grande teatro moderno: scrittura forte e ragionata di un osservatore sensibile, che sulla modernità si affacciava, e intravedeva da subito speranze e rischi, illusioni e delusioni a venire. I suoi testi scavano nella società e si proiettano in avanti: non è solo la grande crisi borghese quella che raccontano, ma quella di un intero pianeta che dopo secoli di storia risulterà sempre fatalmente impreparato ad affrontare il presente, nel pubblico dei rapporti sociali come nel privato di quelli interpersonali. In modo più chiaro e consapevole, ad esempio, di Luigi Pirandello.

NON A CASO, nel nostro immediato passato spettacolare, oltre che su Pirandello, molto su Ibsen hanno lavorato i nostri due maggiori registi, Luca Ronconi e Massimo Castri. Nessuno dei due però aveva affrontato questo Nemico, che attacca senza pietà il potere delle oligarchie borghesi perfino dentro il quieto paesaggio di una valle idilliaca,ricca pure di una fonte termale. E ne mette a nudo senza pietà anche la debolezza strutturale della stampa, codarda e ricattabile dagli interessi padronali, e arriva addirittura a minare il più romantico «artigianato», se una conceria di pellami mina il sistema ecologico di un’intera regione. Non profetico, ma tragicamente razionale lo scrittore Ibsen, sorta di Tiresia di ogni perversione capitalistica, a partire da quella «su piccola scala». Qui protagonisti sono due fratelli, uno sindaco non estraneo agli interessi che lo hanno deputato alla carica (inutile fare riferimento alle vicissitudini giudiziarie attuali di Roma), l’altro medico integerrimo con propensione alla scrittura, tanto da dilettarsi con articoli sui pericoli in agguato sulla azienda termale che al paese dà prosperità (e ancor maggiore ne promette) per colpa dell’inquinamento che sulle acque genera la conceria là sui monti.
Uno scontro fatale, che spacca non solo le famiglie, ma l’intera comunità, in maniera violenta e irrimediabile. Con riflessioni drammatiche del fratello medico, lui additato come «nemico del popolo», fino a doversi chiedere se da temere non sia proprio «la maggioranza, ovvero quel popolo così pronto a farsi suggestionare (come, e anche attraverso, la stampa) per un egoistico interesse allo statu quo. Massimo Popolizio, regista e protagonista «buono», sviluppa come un ingrandimento espressionista quel procedere dalla domestica felicità familiare alla presa di coscienza, scientifica e poi politica, e quindi allo scontro nella redazione del giornale, tutti ambienti pronti a succedersi nella scenografia essenziale e trasformabile predisposta da Marco Rossi. Per arrivare, in una progressiva spoliazione, all’intellettuale solo in proscenio, dopo i boati della folla contro di lui, a porsi il tragico dilemma sul significato della parola democrazia.

CONCLUSIONE schierata, forse scontata, e in qualche modo «pedagogica», che stride un poco con l’accentuato espressionismo del racconto, una sorta di forzatura brechtiana cui il testo viene sottoposto dalla recitazione accentuata degli attori. Che sono tutti bravi e impegnati, dal capitalista Michele Nani al pellaio suonato di Francesco Bolo Rossini, alla moglie trepidante di Francesca Ciocchetti. E naturalmente, nei panni maschili e formali del sindaco, la strepitosa Maria Paiato, che forse più di tutti mantiene un filo interpretativo e progettuale che lo stesso Ibsen avrebbe entusiasmato, come il pubblico dell’Argentina.